Dall’evoluzione giurisprudenziale emerge che il modello organizzativo rappresenta una circostanza che può dimostrare la sussistenza della colpa

Di Maria Francesca ARTUSI

Si sta cristallizzando nella giurisprudenza della Corte di Cassazione il principio per cui un elemento costitutivo della responsabilità da reato degli enti, ai sensi del DLgs. 231/2001, è rappresentato dalla “colpa di organizzazione”, che si collega direttamente al tema dell’adeguatezza dei modelli organizzativi.

In particolare, la sentenza Impregilo (Cass. n. 23401/2022) ha favorito la formazione di un orientamento interpretativo più chiaro sul fondamento della responsabilità amministrativa dell’ente e sulla valutazione giudiziale dell’idoneità del modello. Tale pronuncia ha avuto, infatti, il merito di evidenziare come la colpevolezza dell’ente vada accertata secondo i paradigmi della colpa penale, dove il reato presupposto integra l’evento dannoso e il difetto di organizzazione la condotta colposa.

La giurisprudenza successiva ha ulteriormente specificato che la responsabilità dell’ente “non deve essere confusa con la colpevolezza del dipendente o amministratore dell’ente responsabile del reato” (Cass. nn. 570/202317006/2023 e 21704/2023) e che occorre “individuare i profili di responsabilità da reato dell’ente senza sovrapporli con i profili di responsabilità individuale”. A tal fine è necessario verificare la ricorrenza di specifiche carenze organizzative e il nesso di causalità tra tali carenze e la verificazione del reato (Cass. n. 21640/2023).

Anche la rassegna giurisprudenziale di Assonime n. 1/2024, pubblicata lo scorso 18 aprile, si è soffermata su questa linea interpretativa che, oltre a rafforzare la piena autonomia dell’illecito dell’ente, consente di adeguare l’accertamento della responsabilità delle persone giuridiche ai principi costituzionali della responsabilità penale (legalità, tassatività, determinatezza, colpevolezza e presunzione di innocenza, sanciti dall’art. 27 Cost.), precludendo qualsiasi forma di responsabilità oggettiva basata sul sillogismo “reato commesso, modello inadeguato”.

In questa medesima prospettiva va letta la Cassazione n. 51455/2023 secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il verificarsi del reato non implica, di per sé, l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello organizzativo “231” che sia stato adottato dall’ente (si veda “Dovere di vigilanza del datore e colpa in organizzazione dell’ente non sovrapponibili” del 22 gennaio 2024). In essa si precisa che il modello 231 – nella specificazione di cui all’art. 30 del DLgs. 81/2008 – non si riduce al DVR (o al POS), ma configura un sistema aziendale preordinato (tra l’altro) al corretto adempimento delle attività di valutazione del rischio: esso delinea l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici, discendenti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi.