La nuova normativa desta alcuni dubbi in riferimento al licenziamento discriminatorio e a quello ritorsivo

Di Giada GIANOLA

Il DLgs. 24/2023, di attuazione della direttiva (Ue) 2019/1937, che entrerà in vigore domani 30 marzo, ma le cui disposizioni hanno effetto dal 15 luglio 2023, oltre a disporre il divieto di ritorsione del whistleblower, prevede anche alcune tutele a favore dei lavoratori licenziati per motivi ritorsivi e modifica l’art. 4 della L. 604/66 in materia di licenziamento discriminatorio, con una disposizione che desta alcune perplessità.

L’art. 24 comma 3, infatti, prevede la sostituzione del citato art. 4 della L. 604/66, che al momento dispone la nullità del licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali; tale norma, a decorrere dal 15 luglio 2023, è stata arricchita del riferimento al licenziamento conseguente all’esercizio di un diritto o alla segnalazione, alla denuncia – all’autorità giudiziaria o contabile – o, ancora, alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del DLgs. 24/2023.

Accanto alla suddetta modifica relativa a una norma in tema di licenziamento discriminatorio, all’art. 17 comma 4 lett. a) il DLgs. 24/2023 considera il licenziamento come una misura ritorsiva quando avvenga in risposta alla segnalazione, alla denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica da parte del segnalante o del denunciante, come si desume dalla definizione di ritorsione fornita dall’art. 2, comma 1, lett. m) del decreto stesso.
Quindi, a parte il riferimento operato dal nuovo art. 4 all’esercizio di un diritto, le fattispecie indicate dalle due disposizioni coincidono.

Al successivo art. 19, rubricato “Protezione dalle ritorsioni”, viene poi disposto che gli atti assunti in violazione dell’art. 17 del DLgs. 24/2023 sul divieto di ritorsione sono nulli e che i lavoratori cui sia stato intimato un licenziamento ritorsivo a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all’autorità hanno diritto alla reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della L. 300/70 o dell’art. 2 del DLgs. 23/2015, in ragione della disciplina applicabile al lavoratore (comma 3). All’ultimo comma dell’art. 19 viene quindi previsto che l’autorità giudiziaria adìta adotta tutte le misure, anche provvisorie, necessarie ad assicurare la tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata, compresi il risarcimento del danno, la reintegra nel posto di lavoro, l’ordine di cessazione della condotta posta in essere in violazione dell’art. 17 e la dichiarazione di nullità degli atti adottati in violazione del medesimo articolo.

Anche in materia di prova della ritorsione la nuova normativa va incontro ai whistleblowers con un’inversione dell’onere probatorio, superando così quelle difficoltà che normalmente incontra il lavoratore chiamato a provare la natura ritorsiva del licenziamento.
Si rammenta infatti, come più volte chiarito dalla giurisprudenza, che in riferimento al licenziamento asseritamente ritorsivo è il lavoratore a dover dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante il recesso, vale a dire che l’intento ritorsivo sia sussistente e che lo stesso sia stato l’unico motivo determinante la volontà di recedere da parte del datore di lavoro.

Nel DLgs. 24/2023 è invece prevista, al comma 2 dell’art. 17, la presunzione che gli atti ritorsivi, compreso quindi il licenziamento, siano stati posti in essere a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all’autorità, con conseguente onere a carico di colui che li ha adottati di provare il contrario.

A questo punto non risulta chiara l’utilità della modifica dell’art. 4 della L. 604/66, ciò sotto due profili.
Da una parte, con la modifica dell’art. 4, è stato previsto che il licenziamento determinato anche dall’esercizio di un diritto tutelato dal DLgs. 24/2023 è discriminatorio, ma tale fattispecie non è stata contemplata tra le ipotesi che possono far presumere una ritorsione. L’art. 2 comma 1 lett. m) del DLgs. 24/2023, infatti, fa riferimento alle sole ipotesi della segnalazione, della denuncia all’autorità giudiziaria o contabile e della divulgazione pubblica, ma non all’esercizio di un diritto. In sintesi, dalla nuova normativa risulterebbe che chi esercita un diritto previsto dal DLgs. 24/2023 e viene licenziato subisce una discriminazione, ma non una ritorsione. Nei casi in cui invece segnali, denunci o effettui una divulgazione pubblica e venga licenziato non è chiaro se il licenziamento debba intendersi discriminatorio oppure ritorsivo.

Anche sul piano probatorio, la modifica dell’art. 4 della L. 604/66 non sembra attribuire al lavoratore particolari vantaggi, considerata sia l’inversione sopra specificata in materia di atti ritorsivi prevista dal nuovo decreto, sia la normativa italiana in materia di diritto antidiscriminatorio, che già dispone la medesima presunzione all’art. 40 del testo unico sulle pari opportunità (DLgs. 198/2006) e all’art. 28 del DLgs. 150/2011, secondo cui la discriminazione può essere provata anche per presunzioni partendo da elementi di fatto, anche desunti da dati di carattere statistico, con onere di chi è accusato di tali atti di provare l’insussistenza della discriminazione.