È la conseguenza della ricostruzione della fusione come vicenda estintiva-successoria

Di Maurizio MEOLI

In esito alla fusione per incorporazione, la società incorporata può essere dichiarata fallita entro il termine di un anno dalla sua cancellazione dal Registro delle imprese. Ciò consegue alla qualifica dell’operazione come estintiva-successoria, che chiama in causa l’art. 10 comma 1 del RD 267/1942; norma che presuppone il dato formale della cancellazione dell’imprenditore dal Registro delle imprese, attribuendo rilievo non tanto all’efficacia estintiva dell’operazione quanto a quella della cancellazione.
Ad affermarlo è la Corte d’Appello di Catania nella sentenza n. 855 del 29 aprile scorso.

Nel caso di specie, il rappresentante legale della società Alfa, incorporante della società Beta (nella quale ricopriva il medesimo incarico), ricorreva contro la sentenza che aveva dichiarato il fallimento della Beta poco prima del decorso di un anno dalla data di cancellazione della società stessa dal Registro delle imprese, secondo quanto prescritto dall’art. 10 comma 1 del RD 267/1942 (“Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”).
Si contestava, infatti, l’applicabilità di tale disposizione all’ipotesi di fusione per incorporazione, da considerarsi vicenda evolutiva-modificativa, e, comunque, si riteneva che, anche ad ammetterne la natura estintiva, sarebbe stato necessario considerare l’assenza di pregiudizio in conseguenza della mancata cessazione dell’attività d’impresa, stante la prosecuzione dei rapporti giuridici in capo alla società incorporante.

La Corte d’Appello di Catania rigetta il ricorso.
Si ricorda, in primo luogo, come le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 21970/2021, abbiano ritenuto che la fusione di società, anche per incorporazione, costituisca una vicenda estintiva-successoria in cui tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla società incorporata sono imputati a un diverso soggetto giuridico che è la società incorporante. Ed è proprio tale interpretazione a rendere fallibile la società incorporata ai sensi dell’art. 10 comma 1 del RD 267/1942.

È vero – riconosce la decisione in commento – che le Sezioni Unite richiamano la citata norma per sostenere, a contrario, come da essa non possa ricavarsi l’assunto che la società incorporata sia giuridicamente esistente solo perché può essere dichiarata fallita entro l’anno dalla cancellazione dal Registro delle imprese, in quanto solo la norma speciale, qual è quella fallimentare, può consentire di dichiarare il fallimento di un soggetto estinto, se ciò avvenga entro il limite temporale indicato. Tuttavia ne afferma esplicitamente la fallibilità.
In particolare, nella citata decisione delle Sezioni Unite si osserva come il fatto che la società possa essere assoggettata a fallimento dopo la fusione, ancorché cancellata dal Registro delle imprese, non sia elemento normativo a favore della tesi della sua sopravvivenza alla cancellazione; perché se proprio se ne voglia trarre un indizio, è allora piuttosto elemento di segno opposto, atteso che solo una norma speciale, come quella dell’art. 10 comma 1 del RD 267/1942, ha potuto sancire un simile precetto.

E allora, osserva la Corte d’Appello di Catania, la confusione dei patrimoni e l’assunzione dei debiti del soggetto definitivamente estinto – con conseguente trasferimento dell’insolvenza sui creditori della incorporante, che concorrono con quelli della incorporata a soddisfarsi sul patrimonio divenuto unico – non sono in grado di escludere che l’impresa in stato di decozione al momento in cui si estingua si possa sottrarre alla dichiarazione di fallimento, se insolvente.

Ciò è reso impossibile dal chiaro disposto dell’art. 10 comma 1 del RD 267/1942, che presuppone il dato formale della cancellazione dell’imprenditore dal Registro delle imprese, senza che occorra la cessazione della corrispondente attività su un piano oggettivo; a rilevare, quindi, non è tanto l’efficacia estintiva dell’operazione di fusione, ma l’efficacia estintiva della cancellazione.

Neppure è possibile sostenersi – concludono i giudici catenesi – che dalla fusione per incorporazione non possa
conseguire alcun pregiudizio in capo ai creditori, che, peraltro, hanno a disposizione lo strumento dell’opposizione preventiva di cui all’art. 2503 c.c.

L’effetto pregiudizievole conseguente all’operazione di fusione può, infatti, ravvisarsi sia nella confusione dei patrimoni dei soggetti partecipanti all’operazione che nella possibile diminuzione della garanzia patrimoniale della società debitrice derivante da tale confusione; e, comunque, il fallimento dell’incorporata è la conseguenza della sua insolvenza al momento dell’estinzione e del mancato decorso dell’anno dalla sua cancellazione dal Registro delle imprese, a prescindere dalla circostanza che i debiti siano stati assunti dall’incorporante, non potendo tale elemento eliminarne la responsabilità, occorrendo eventualmente, a tali fini, una previsione normativa espressa.

L’opposizione alla fusione, infine, è rimedio non “sostitutivo e necessario”, ma solo “aggiuntivo”.