Confisca per equivalente legittima solo laddove non sia possibile la confisca diretta dei beni che costituiscono il profitto del reato

Di Maria Francesca ARTUSI

In materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal DLgs. 74/2000 deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena.
Tale obbligatorietà è sancita dall’art. 12-bis del citato decreto, così come introdotto dal DLgs. 158/2015. La medesima obbligatorietà – salvo che per il reato di occultamento o distruzione dei documenti contabili ex art. 10 del DLgs. 74/2000 – vale anche per i fatti illeciti commessi anteriormente al 2015, stante l’identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione attuale e la previgente fattispecie, prevista dall’art. 322-ter c.p., richiamato dall’art. 1 comma 143 della L. 244/2007 (così Cass. n. 50338/2016).

Le disposizioni richiamate, tuttavia, ammettono la confisca per equivalente di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente al profitto del reato, soltanto laddove non sia possibile la confisca – c.d. diretta – dei beni che costituiscono il profitto del reato. La misura ablatoria – così come il sequestro preventivo a essa funzionale – è dunque legittima soltanto se i proventi dell’illecito non sono rinvenuti, per quanto qui rileva, nella sfera patrimoniale dell’ente nel cui interesse il reato tributario è stato commesso, dovendo farsi ricorso alla confisca per equivalente soltanto in via subordinata (Cass. n. 46709/2018).

Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 8557 depositata ieri, ha annullato con rinvio la confisca per equivalente del profitto del reato di dichiarazione fraudolenta, previsto dall’art. 2 del DLgs. 74/2000, disposta nei confronti del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata che aveva indicato fatture per operazioni inesistenti nelle dichiarazioni presentate per gli anni d’imposta 2010 e 2011. Le sentenze di merito in tale procedimento si erano limitate a disporre la confisca “di valore” senza nulla specificare in ordine all’impossibilità di confiscare il profitto direttamente nei confronti della srl.

Con l’occasione, i giudici di legittimità ricordano che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti. Oggetto di repressione penale è, infatti, ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Cass. nn. 1998/2020 e 4236/2019).

Nel caso di specie, sin dal primo grado, il reato è stato ritenuto limitatamente all’importo fatturato con riguardo alle “provvigioni” corrisposte ai soggetti che avevano emesso le fatture per operazioni inesistenti, vale a dire a erogazioni illecite ovviamente non deducibili. Per tali ragioni non vi era alcun dubbio – secondo la Cassazione – che, quantomeno in questi termini, la fraudolenta indicazione degli elementi passivi fittizi fosse stata finalizzata a evadere le imposte. In tal senso, è possibile ritenere configurato il dolo specifico di evasione fiscale, pur essendo stato accertato l’effettivo acquisto dei materiali da parte della società nei quantitativi indicati nei DDT e nelle fatture (come evidenziato dalla difesa). In particolare, le motivazioni della pronuncia in esame evidenziano, a base dell’affermazione della responsabilità penale, il fatto che le società venditrici erano “cartiere al 100%“ e che la documentazione dalle stesse prodotte non era attendibile.

Dal punto di vista procedurale, viene precisato che è possibile per l’accusa rifarsi a un documento inserito tra gli allegati di una relazione peritale (si trattava in particolare della consulenza tecnica effettuata su incarico del pubblico ministero). Infatti, l’acquisizione agli atti del processo della relazione peritale (o del consulente tecnico di parte) è sufficiente a far ritenere legittimamente acquisiti tutti i documenti alla stessa allegati, ancorché non fatti oggetto di autonoma produzione.