Tra i rischi penali connessi all’emergenza COVID-19 vi sono i delitti contro industria e commercio, specie per beni che possono essere contraffatti
La distribuzione di mascherine chirurgiche senza marchio CE può comportare una responsabilità della società venditrice ai sensi del DLgs. 231/2001. In particolare, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 37141 depositata ieri, si confronta con un provvedimento di sequestro in relazione all’illecito amministrativo di cui all’art. 25-bis.1 comma 1 lett. a) del DLgs. 231/2001, riferibile al reato presupposto di cui all’art. 515 c.p., sia in via diretta che per l’equivalente, sul denaro presente nei conti correnti di una società fino alla concorrenza di 421.548 euro quale profitto del reato.
Va precisato che l’art. 515 c.p. punisce la condotta di chi, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita (salvo che il fatto non integri un più grave delitto).
D’altra parte, il citato art. 25-bis.1 è dedicato ai delitti contro l’industria e il commercio che vengono puniti (per quanto attiene alla fattispecie qui in esame) con la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote.
Nel caso in esame, il sequestro preventivo era stato disposto sul presupposto che la società avrebbe posto in commercio su tutto il territorio nazionale circa 354.000 mascherine chirurgiche con marchio CE certificato da un organismo non autorizzato e richiama l’attenzione sul fatto che, trattandosi di vendita di merce da piazza a piazza, in conformità con la giurisprudenza di questa Corte, il perfezionamento della vendita si sarebbe realizzato non con la spedizione della merce dall’unità produttiva, bensì con l’effettiva ricezione della stessa da parte degli acquirenti.
Si trattava di mascherine, acquistate da un importatore europeo, descritte come mascherine protettive, perché sulle confezioni era espressamente indicato che il prodotto non era considerato dispositivo medico.
Le indagini esperite dalla polizia giudiziaria avevano consentito di accertare, presso una farmacia, che il titolare della stessa aveva acquistato dalla società in questione duemila mascherine chirurgiche ed aveva esibito agli operanti un documento di trasporto (DDT), emesso dalla stessa società, al quale era annesso un certificato attestante la conformità delle mascherine al Reg. 2017/45/Eu e recante la marchiatura “CE”. Tuttavia, era stato poi verificato che l’ente che aveva apposto tali certificati non era abilitato al rilascio di certificazioni e non era inserito nella banca dati che contiene i nominativi degli organismi notificatori abilitati al rilascio delle certificazioni CE.
Veniva altresì accertato che diverse copie di tali certificati erano presenti nel magazzino della società “imputata” unitamente a mascherine contenute in un blister recante la marcatura CE ed a tre scatole di etichette adesive, recanti la stessa marcatura CE, apponibili sui blister delle mascherine.
I giudici evidenziano, altresì, che l’amministratore della società disponeva di conoscenze e capacità per verificare la genuinità e regolarità delle certificazioni di conformità relative ai prodotti da lui acquistati e venduti, non rilevando, a tale proposito, la buona fede derivante dal semplice fatto che l’acquisto era stato effettuato attraverso un importatore europeo.
Si tratta qui di un giudizio ancora in fase cautelare in cui viene confermato unicamente il “fumus” del reato, lasciando l’accertamento vero e proprio degli elementi del reato al successivo giudizio di merito.
Le motivazioni della Cassazione si soffermano, dunque, sui presupposti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, oltre che su alcuni aspetti legati alla competenza del giudice. In particolare, viene precisato che ai fini della determinazione dell’ammontare di tale sequestro, non vi è necessità di accertare l’esatta corrispondenza fra profitto e quantum sequestrato, essendo sufficiente che il giudice motivi, in linea di massima, sulla non esorbitanza di quanto sequestrato, salvi, ovviamente, gli eventuali più approfonditi accertamenti da svolgersi nel giudizio di merito. La pronuncia si conclude con il rinvio al giudice di merito per una nuova valutazione sul “periculum in mora” (cfr. Cass. SS.UU. n. 36959/2021).
Ciò che è, tuttavia, interessante notare è la natura della contestazione che si inserisce tra quei rischi penali connessi all’emergenza COVID-19. In proposito va ricordato il documento emanato da CNDCEC e Fondazione nazionale dei Commercialisti intitolato “Vigilanza e modello di organizzazione, gestione e controllo ex DLgs. 231/2001 nell’emergenza sanitaria” (27 aprile 2020) in cui si evidenziava proprio come tra i reati configurabili vi erano proprio i delitti contro l’industria e il commercio, soprattutto per i beni caratterizzati da elevata domanda nella attuale fase storica (es. DPI), che potevano essere contraffatti, oppure avere origine, provenienza, qualità, marchio o segni distintivi diversi da quelli pattuiti.
La sentenza in commento – sebbene in una fase cautelare – conferma la sussistenza di tali rischi per le società e per le persone giuridiche.