Secondo la Cassazione si guarda anche all’esistenza di conti correnti cointestati

Di Caterina MONTELEONE

L’esistenza di una società di fatto tra professionisti può essere provata sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, quali l’utilizzo dei medesimi locali nei quali viene svolta l’attività professionale e l’esistenza di conti correnti cointestati accesi presso diversi istituti bancari, sui quali confluiscono i ricavi dell’attività e i costi sostenuti.
È il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24881 depositata ieri, con la quale i giudici hanno respinto i ricorsi presentati da due professionisti per contestare l’illegittimità dell’accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate sulla base della presunzione che svolgessero l’attività non con modalità individuale, bensì che esistesse una società di fatto tra professionisti.

Nei primi due gradi di giudizio, i contribuenti erano risultati soccombenti. I giudici di merito avevano ritenuto legittimo l’accertamento emesso, ritenendo dimostrata l’esistenza della società di fatto in considerazione sia del fatto che i due professionisti accertati si presentavano dinanzi ai terzi manifestando l’esistenza della società, sia del fatto che l’attività risultava svolta in comune, come dimostrato dall’esistenza di tre conti correnti accesi presso diversi istituti bancari, dalla divisione degli utili e delle perdite, oltre che dall’utilizzo dei medesimi locali per svolgere l’attività professionale.

I contribuenti avevano impugnato la sentenza di secondo grado sostenendone l’illegittimità, innanzitutto in quanto per altre due annualità (1981 e 1982) erano state pronunciate sentenze che dichiaravano l’inesistenza della società di fatto e, in secondo luogo, perché mancava la prova dell’esistenza di un’attività organizzata; affermavano, infatti, che “ai fini della qualificazione di una società di fatto nei rapporti di diritto tributario è necessario accertare l’effettiva sussistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo”.

In relazione a questa contestazione, i giudici di legittimità sostengono che in materia tributaria i criteri da seguire per verificare l’esistenza di una società di fatto sono diversi rispetto a quelli rilevanti nei rapporti di diritto privato, essendo diversa l’esigenza da tutelare: ai fini privatistici l’esigenza è quella di tutelare l’affidamento senza colpa dei terzi basata sul comportamento dei soci; nei rapporti di diritto tributario l’esigenza è quella di verificare se esistono i presupposti per applicare le norme impositive.

Viene, quindi, richiamato l’orientamento giurisprudenziale (Cass. 16 giugno 2016 n. 12500) secondo cui, in materia tributaria, l’esistenza della società di fatto non può ritenersi provata solo sulla base della esternalizzazione del vincolo nei confronti dei terzi, ma può essere dimostrata sulla base di presunzioni idonee dimostrare l’esistenza “del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi”.

In linea con tale orientamento, i giudici della Cassazione hanno ritenuto che, nel caso in esame, il giudice di merito non si fosse limitato ad accertare l’esistenza di una società di fatto sulla base della esternalizzazione del rapporto, provando, invece, l’esistenza dei requisiti richiesti per dimostrare la sussistenza di un’attività societaria di fatto, che, secondo quanto previsto dall’art. 2247 c.c., sono il conferimento di beni, un fondo comune, la divisione degli utili e delle perdite, l’affectio societatis.

L’esistenza di tali requisiti è stata dimostrata sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, quali l’esercizio dell’attività comune come dimostrato dalla costituzione di alcune società di servizi, lo svolgimento dell’attività da parte di entrambi i professionisti nei medesimi locali, nonché la costituzione del fondo comune dimostrato dai tre conti correnti cointestati accesi presso vari istituti bancari.