Occorre, tuttavia, dimostrare che la partecipazione abbia un proprio valore economico

Di Maurizio MEOLI

Nelle srl, la revoca della rinuncia al diritto di opzione è consentita quando l’opzione costituisce un bene in sé, dotato di autonomo valore di mercato (che è il creditore a dover dimostrare). A ribadirlo è il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 5222 del 23 marzo scorso.

Quanto alla necessità che la partecipazione presenti un effettivo valore patrimoniale, il giudice romano ricorda, in primo luogo, come uno dei presupposti dell’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) sia costituito dal c.d. eventus damni, dovendo l’atto revocando aver determinato o aggravato il pericolo di incapienza del debitore.

Si tende, così, a sottolineare come la rinuncia o il mancato esercizio del diritto di opzione relativo all’aumento di capitale di una srl non sia, di per sé, suscettibile di revoca, ai sensi dell’art. 2901 c.c., al fine di consentire al creditore di sostituirsi al debitore nell’esercizio dell’opzione stessa, perché l’effetto della revoca è la declaratoria di inefficacia dell’atto revocato e il conseguente assoggettamento del bene oggetto di rinuncia all’azione esecutiva, ossia all’espropriazione forzata, in modo che dalla vendita forzata il creditore possa ricavare quanto necessario alla realizzazione del suo credito, salvo, tuttavia, che l’opzione costituisca un bene dotato di autonomo valore di mercato (cfr. Cass. n. 2670/2020 e Cass. n. 10879/2007, nonché Trib. Milano n. 10402/2016).

Tale caratteristica, peraltro, non può essere data per scontata nelle srl. In tale ambito, infatti, diversamente dal caso della spa – dove, alla luce delle previsioni dell’art. 2441 c.c., il diritto di opzione presenterebbe un indubbio valore economico in sé – vige, ancor più dopo la riforma del diritto societario, un’impronta personalistica (impronta che, comunque, secondo la recentissima Cass. n. 9460/2021, sarebbe da intendersi in senso debole, come interesse del socio a non vedere ridotta la propria partecipazione all’interno della compagine). Per cui, il diritto di opzione non ha automaticamente un valore patrimoniale autonomo e potrebbe anche non avere alcun valore patrimoniale (ed in questo caso non essere soggetto ad azione revocatoria), in quanto tale valore finisce per essere strettamente correlato alla disciplina statutaria relativa alla circolazione delle quote, che può essere vietata o sottoposta a vincoli più o meno rigorosi che incidono sulla trasferibilità ai soci e ai terzi del diritto di opzione.

Tuttavia, qualora lo statuto dovesse prevedere una clausola di prelazione in favore degli altri soci che, in caso di mancato esercizio del diritto di prelazione, consenta la libera circolazione della quota a terzi, deve ritenersi che, astrattamente, il diritto di opzione accessorio alla partecipazione presenti un suo valore economico; anche se limitata, infatti, la circolazione delle quote sociali e la loro alienabilità a soggetti terzi non è assolutamente vietata dallo statuto (sul tema si veda anche la massima n. 157/2016 del Consiglio notarile di Milano).

Ciò rende ammissibile, in astratto, l’azione revocatoria della rinuncia al diritto di opzione nelle forme di cui all’art. 2901 c.c.; a tali fini, peraltro, diviene dirimente l’effettivo accertamento del valore del diritto di opzione. Ove tale valore dovesse risultare nullo alla data della delibera di aumento del capitale sociale e della rinuncia all’esercizio del diritto di opzione, infatti, sarebbe da escludere qualsiasi pregiudizio alle ragioni dei creditori arrecato dalla condotta abdicativa, con conseguente insussistenza del presupposto oggettivo della revocatoria esercitata.

L’onere di provare tale valore economico ricade sul creditore che agisce in revocatoria, trattandosi del fondamento, in concreto, della domanda. Vale a dire che, avendosi riguardo all’esistenza di un concreto eventus damni che giustifichi l’iniziativa processuale assunta, la rilevanza quantitativa e qualitativa dell’atto di disposizione deve essere provata dal creditore agente; mentre è onere del debitore, per sottrarsi agli effetti dell’azione revocatoria, provare che il proprio patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore (cfr. Trib. Milano n. 10402/2016).

Inoltre, mentre nella revocatoria fallimentare (ex art. 67 del RD 267/1942) l’eventus damni può dirsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile per presunzione assoluta alla fuoriuscita del bene dal patrimonio del fallito (cfr. Cass. n. 11652/2018), nell’azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore (ex art. 66 del RD 267/1942) è onere dello stesso fornire la prova che il patrimonio residuo del debitore fallito era di dimensioni tali, in rapporto all’entità della propria complessiva esposizione debitoria, da esporre a rischio il soddisfacimento dei creditori, e in particolare: la consistenza dei crediti vantati dai creditori ammessi al passivo fallimentare, nonché la sussistenza, al tempo del compimento del negozio, di una situazione patrimoniale della società che mettesse a rischio la realizzazione dei crediti sociali ed il mutamento qualitativo o quantitativo della garanzia patrimoniale generica – rappresentata dal patrimonio sociale – determinato dall’atto dispositivo (cfr. Cass. n. 19515/2019 e Cass. n. 9565/2018).