Non occorre agire ai sensi dell’art. 36 del DPR 602/73 o dell’art. 2495 c.c.

Di Alice BOANO e Alfio CISSELLO

La presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, tipica delle società di capitali a ristretta base proprietaria, trova applicazione anche quando la società, il cui accertamento non sia stato nella specie impugnato, è estinta.
Ad affermarlo in via mediata è la Corte di Cassazione in occasione dell’ordinanza n. 10732 del 22 aprile 2021.

La vicenda prendeva le mosse da un accertamento nei confronti di una società di capitali a cui, una volta riscontrata la presenza di utili occulti, era stata applicata la presunzione, di matrice giurisprudenziale, in forza della quale essi vengono considerati ripartiti, in proporzione alle rispettive quote, fra i soci.
Uno di essi, in conseguenza di ciò, era stato destinatario di un avviso di accertamento con il quale veniva accertato il maggior reddito per l’anno di imposta 2006.
La società partecipata, tuttavia, era stata cancellata nell’anno 2007, pertanto era sorta la questione se l’estinzione della società stessa determinasse l’illegittimità dell’accertamento in capo ai soci.

La Suprema Corte accoglie l’impostazione secondo cui l’accertamento nei confronti del socio era indipendente da quello societario, nel senso che quest’ultimo ne costituiva unicamente il presupposto di fatto, e che lo stesso si fondava sulla presunzione di distribuzione degli utili essendo la compagine sociale a ristretta base partecipativa.
Secondo la Cassazione, per confutare la legittimità dell’accertamento, non è possibile invocare l’applicazione dell’art. 2495 c.c. e/o dell’art. 36 comma 3 del DPR 602/73.

In applicazione delle richiamate norme i soci delle società estinte, a determinate condizioni, sono ritenuti responsabili per i debiti fiscali della società.
La responsabilità di cui all’art. 36, terzo comma, secondo i giudici di legittimità, appare in buona parte fondata sugli stessi presupposti di quella dell’art. 2495 c.c., differenziandosi per il fatto che la norma fiscale amplia il periodo temporale di riferimento per valutare se il socio abbia goduto della distribuzione di somme o di beni societari.

Pur risultando corretto che, in presenza di una società cancellata dal Registro delle imprese, spetta al creditore – e quindi all’Ufficio – l’onere della prova dell’avvenuta percezione da parte dei soci di somme o beni nei due anni precedenti all’estinzione, nel caso in esame non si verte nell’ipotesi in cui il creditore sociale, una volta esaurite le operazioni di liquidazione ed estintasi la società, pretenda dai soci il soddisfacimento del proprio credito insoddisfatto nei limiti di quanto riscosso da questi ultimi in sede di liquidazione.

L’Amministrazione finanziaria fonda l’accertamento, invece, nei confronti del contribuente sulla presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati, non assumendo rilievo l’intervenuta successiva cancellazione della società.

Un siffatto orientamento, a ben vedere, legittima una prassi che ha l’effetto di eludere il precetto imposto dall’art. 36 comma 3 del DPR 602/73, secondo cui “I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile”.

Di per sé, la presunzione di distribuzione è altamente censurabile, siccome estende alle società di capitali ristrette il meccanismo di imputazione del reddito tipico delle società di persone.
Ove, poi, si ammetta che il tutto valga anche dopo la cancellazione dal Registro delle imprese della società, si violano pure le norme che, per questo frangente, prevedono sia limiti di responsabilità per i soci sia limiti entro cui, al ricorrere di determinate circostanze, il Fisco può rivolgersi ai soci medesimi.

Se si analizza da più vicino quanto implicitamente sancito nella sentenza in commento, ne deriva non solo una elusione del menzionato art. 36, ma un sostanziale ampliamento dello stesso.

L’art. 36 obbliga il Fisco a dimostrare che il socio ha ricevuto denaro o altri beni nei due anni antecedenti alla liquidazione e nel periodo della liquidazione stessa, mentre la Cassazione autorizza il Fisco a presumere che il socio abbia ricevuto gli utili extracontabili, senza limiti di tempo, se non quelli derivanti dall’ordinaria attività di accertamento.