Le Sezioni Unite confermano il reato più grave per l’omesso versamento del PREU

Di Maria Francesca ARTUSI

Il mancato riversamento del prelievo erariale unico (PREU) maturato dagli apparecchi da gioco con vincite in denaro (slot machine) può integrare il reato di peculato ai sensi dell’art. 314 c.p.

Come già preannunciato su Eutekne.info (si veda “Non versare il PREU sui giochi è peculato” del 2 ottobre 2020), le Sezioni Unite, con le motivazioni della sentenza n. 6087 depositate ieri, hanno così risolto il contrasto interpretativo circa la qualificazione dell’omesso versamento del prelievo unico erariale dovuto sull’importo delle giocate, al netto delle vincite erogate, da parte del gestore degli apparecchi da gioco con vincita in denaro o del “concessionario” per l’attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito.

Una differente linea interpretativa sosteneva si potesse, invece, configurare il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, previsto dall’art. 640 comma 2 c.p., ovvero di frode informatica, previsto dall’art. 640-ter c.p. (cfr. Cass. n. 21318/2018).
La differenza di qualificazione rispetto al peculato è decisamente rilevante, oltre che per il diverso interesse protetto (la Pubblica Amministrazione rispetto al patrimonio), soprattutto per la ben più alta cornice sanzionatoria del delitto di cui all’art. 314 c.p. (da quattro a dieci anni prima della riforma della L. 69/2015 e oggi da quattro anni a dieci anni e sei mesi).

Il cuore della condotta di peculato è rappresentato dall’appropriazione di danaro o di altra cosa mobile altrui realizzata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, che ne ha il possesso o la disponibilità in ragione del suo ufficio o servizio. La questione all’esame delle Sezioni Unite verte, dunque, da un lato, sulla qualifica soggettiva del gestore degli apparecchi da gioco rispetto all’importo delle giocate dovuto all’Erario, dall’altro, sulla “proprietà” del denaro incassato all’atto della puntata.

Sotto il primo aspetto, nella pronuncia in commento, viene affermato che il concessionario svolge in regime di concessione un pubblico servizio, riservato al monopolio statale, che consiste proprio nel controllo delle attività di gioco sia per il rispetto dei limiti entro quale può ritenersi lecito, svolgendo quella funzione pubblica, più volte dichiarata nella normativa, di contrasto alla diffusione della ludopatia e delle attività criminali nel dato settore, sia per la gestione degli incassi delle giocate, destinati all’Erario.

In altre parole, il privato concessionario gestisce in via esclusiva un’attività propria dell’amministrazione, rientrante nell’ambito di un monopolio legale, esercitandone i medesimi poteri pubblici. In un tale contesto, il concessionario procede alla raccolta di denaro, tramite gli apparecchi collegati alla rete telematica della Pubblica Amministrazione, attività che assume carattere pubblico in forza del titolo di legittimazione alla giocata che rende lecito un gioco d’azzardo che, altrimenti, integrerebbe un’attività assolutamente vietata dall’art. 110 del RD 773/1931 (TULPS) e sanzionata.

Per quanto riguarda il denaro incassato dalle puntate, non è in discussione se il PREU in sé sia un’imposta, in quanto questa natura è pacifica proprio alla luce della normativa inequivoca che lo disciplina; è, invece, in questione la natura pubblica degli incassi del gioco realizzati utilizzando una certa tipologia di apparecchi.

In proposito, la Sesta sezione penale, che ha sollevato il ricorso in esame, aveva ritenuto che il denaro incassato dalle puntate dovesse ritenersi non immediatamente di proprietà, pro quota, dell’Erario, bensì interamente della società che dispone del congegno da gioco, anche per la parte corrispondente all’importo da versare a titolo di prelievo unico erariale. Questo perché la giocata genera un ricavo di impresa sul quale è calcolato l’importo che la società deve corrispondere a titolo di debito tributario. In tal senso, non potrebbe sussistere quella diretta lesione al bene pubblico richiesta per il peculato.

L’opposto indirizzo – fatto proprio dalle Sezioni Unite – ritiene, invece, che tale denaro è incassato, a prescindere dalla proprietà dei dispositivi di gioco, nell’esercizio della concessione e per conto della concedente, e, quindi, appartiene all’amministrazione; la peculiare modalità di riversamento del denaro, con il meccanismo tributario per una gran parte (il PREU) e con il canone di concessione per altra, non incide sulla natura di “denaro pubblico”.
Tale conclusione si confronta anche con le posizioni assunte dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, competente a esercitare il controllo sui concessionari in virtù della loro qualificazione quali “agenti contabili”, secondo cui il PREU va qualificato come un’entrata erariale.

In definitiva la condotta del gestore (cui, si rammenta, va equiparato l’esercente) di appropriazione degli incassi degli apparecchi da gioco, in quanto denaro “altrui” del quale ha il possesso per ragione del suo ufficio di incaricato di pubblico servizio, è quindi correttamente qualificata come peculato.