Per la Corte Ue il diritto costituisce una norma internazionale generalmente riconosciuta, che si trova al centro della nozione di equo processo

Di Maria Francesca ARTUSI

Nei procedimenti per abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, la normativa nazionale di uno Stato Ue può prevedere di non sanzionare una persona fisica, che, nel corso di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente, si rifiuti di fornire risposte che facciano emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi “carattere penale” oppure la sua responsabilità penale.
Così si conclude la sentenza della Corte di Giustizia Ue relativa alla causa C-481/19, stabilendo la validità del c.d. “diritto a non autoincriminarsi” o “diritto al silenzio” anche nei procedimenti avanti alla CONSOB.

La questione era stata sollevata dalla Corte Costituzionale italiana (Corte Cost. n. 117/2019) in un caso in cui l’autorità di vigilanza aveva irrogato a un soggetto sanzioni pecuniarie per l’infrazione amministrativa di insider trading. Essa aveva altresì inflitto a costui una sanzione pecuniaria dell’importo di 50.000 euro per l’infrazione amministrativa di cui all’art. 187-quinquiesdecies del DLgs. 58/98, per avere rinviato più volte la data dell’audizione alla quale era stato convocato nella sua qualità di persona informata dei fatti e per essersi rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte una volta presentatosi.
Tale art. 187-quinquiesdecies prevede sanzioni applicabili in caso di omessa collaborazione alle indagini e rappresenta l’attuazione di un obbligo posto dalla direttiva 2003/6/Ce e dal regolamento Ue 596/2014.
D’altra parte, il “diritto al silenzio” è previsto dagli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La questione qui affrontata riguarda, da un lato, l’interpretazione della normativa europea sul market abuse, dall’altro, la possibilità di applicare il diritto in questione non soltanto ai procedimenti penali, ma anche nelle audizioni personali disposte dalla CONSOB nell’ambito della sua attività di vigilanza.
Già l’Avvocato generale presso la Corte di Lussemburgo (nelle sue conclusioni del 27 ottobre scorso) aveva affermato che le disposizioni unionali che hanno dato origine all’art. 187-quinquiesdecies possono essere interpretate in conformità al diritto al silenzio, nel senso che esse non impongono agli Stati membri di sanzionare coloro che rifiutano di rispondere a domande dell’autorità di vigilanza da cui possa emergere la propria responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di “natura penale”.

Con la pronuncia in commento, i giudici Ue confermano tale impostazione precisando che l’art. 14 par. 3 della direttiva 2003/6/Ce e l’art. 30, par. 1 lettera b) del Regolamento Ue n. 596/2014, relativi agli abusi di mercato vanno letti alla luce dei citati artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Richiamando la Corte EDU, le motivazioni della sentenza spiegano che il diritto al silenzio costituisce una norma internazionale generalmente riconosciuta, che si trova al centro della nozione di equo processo. In quanto tale, esso non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, bensì comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa e avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona. Ciò – evidentemente – non giustifica qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi a un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa.

Punto centrale della tematica è l’affermazione che il diritto al silenzio è destinato ad applicarsi nel contesto di procedure suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative presentanti “carattere penale”. Tre sono i criteri per identificare questo “carattere penale”: la qualificazione giuridica dell’illecito nell’ordinamento interno, la natura stessa dell’illecito e il grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire.
Si torna qui sulla dibattuta problematica dei rapporti tra il procedimento amministrativo e il procedimento penale e sull’applicabilità al primo delle garanzie previste dal secondo, che fonda molte pronunce delle corti internazionali soprattutto in materia di ne bis in idem.

In sintesi, il diritto al silenzio impedisce che qualcuno venga sanzionato per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente, nell’ambito dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato, informazioni che potrebbero far emergere la sua responsabilità penale o di “natura penale” nel senso di cui si è detto.