Secondo la Cassazione l’impedimento oggettivo a conseguire ricavi va interpretato in senso ampio

Di Luisa CORSO

Con la sentenza n. 24314 del 3 novembre 2020, la Corte di Cassazione torna a esprimersi sulle cause oggettive idonee a disinnescare le conseguenze penalizzanti della disciplina delle società di comodo e, nel farlo, conferma il principio di diritto in base al quale l’impossibilità per l’impresa di conseguire il reddito minimo deve essere intesa, non in termini assoluti, bensì elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati conformi agli standard minimi richiesta dalla norma, ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta.

Il caso di specie ha ad oggetto una società, costituita nel 2003 allo scopo di costruire e gestire un impianto di frantumazione di inerti, entrato in funzione solamente nel 2009, una volta sottoscritta la convenzione con la società fornitrice dei macchinari necessari allo svolgimento dell’attività produttiva. Di conseguenza, nella fase di start up (ricorrente nell’anno 2006, oggetto di accertamento), non era stato possibile conseguire ricavi, in quanto le immobilizzazioni non avevano potuto essere utilizzate.
Ricorrendo contro la decisione della C.T. Reg., la società lamenta, tra i motivi del ricorso, la mancata considerazione della situazione di ritardo nell’avvio dell’attività produttiva in cui è venuta incolpevolmente a trovarsi.

Accogliendo tale motivo di ricorso, la Suprema Corte osserva che, nonostante la formulazione dell’art. 30 comma 4-bis della L. 724/94 vigente ratione temporis richiedesse che le situazioni oggettive idonee a disapplicare la disciplina delle società di comodo avessero carattere “straordinario”, le pronunce di legittimità hanno fornito un’interpretazione meno rigida circa la portata dell’impedimento oggettivo a conseguire ricavi.
Stando a tale orientamento, infatti, l’impossibilità a conseguire le soglie minime normativamente richieste deve essere intesa non in termini assoluti, bensì in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato (cfr., tra le altre, Cass. 28 maggio 2020 n. 10158).

In linea con la ratio antielusiva sottostante la disciplina delle società non operative, pertanto, secondo la Corte le situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi minimi non devono essere individuate secondo un criterio rigido e stringente, dovendosi, al contrario, ritenere idoneo ogni fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che abbia impedito il raggiungimento della soglia minima mediante il concreto svolgimento dell’attività di impresa.

In tale prospettiva, assume quindi rilievo il ritardo nell’avvio dell’attività produttiva dovuto al protrarsi della fase preparatoria (in cui si inserisce la costruzione dell’impianto), purché risulti, quantomeno, la programmazione di un’attività commerciale e il contribuente dimostri che il ritardo sia dovuto a cause estranee alla propria volontà (cfr., sul punto, Cass. 30 dicembre 2019 n. 34642).

Al riguardo, è richiamata la prassi avente ad oggetto la causa di esclusione automatica dalla disciplina relativa al non normale svolgimento dell’attività, presente nella formulazione normativa vigente anteriormente a quella applicabile nella specie, poi eliminata.

Nello specifico, secondo le indicazioni interpretative fornite con la C.M. 26 febbraio 1997 n. 48, è periodo di non normale svolgimento dell’attività quello, successivo al primo periodo di imposta, in cui la società non abbia ancora avviato l’attività in quanto si è protratta la costruzione dell’impianto o non sono state concesse le autorizzazioni amministrative necessarie, ovvero quello in cui viene svolta esclusivamente attività di ricerca propedeutica allo svolgimento di altra attività produttiva. Sebbene la circolare sia stata diramata quando ancora il non normale svolgimento dell’attività rappresentava causa di esclusione automatica dalla disciplina delle società non operative, nel nuovo contesto normativo, la medesima circostanza può essere valorizzata mediante istanza di disapplicazione.

Tra i motivi di ricorso, non esaminati dalla Corte di Cassazione, in quanto assorbiti dal precedente, merita interesse quello per cui tra le immobilizzazioni suscettibili di essere computate nel test di operatività era stato inserito il suolo industriale; ciò, sebbene negli anni 2006-2007 il complesso industriale era in fase di start up e nessuna immobilizzazione poteva quindi entrare in funzione.

Al riguardo, va rilevato che, sebbene l’Agenzia (circ. n. 25/2007, § 3.2.2) escluda dal conteggio le immobilizzazioni in corso, in quanto non ancora idonee a produrre alcun provento, non risulta tuttora chiaro se tale esclusione operi in modo automatico o debba essere fatta valere con apposita istanza di disapplicazione. Va, sul punto, osservato che il caso degli immobili non idonei a produrre ricavi in quanto ancora in corso di costruzione, esclusi dal conteggio, è diverso da quello dell’inidoneità dell’immobile a produrre ricavi per l’impossibilità di utilizzarlo (fatiscenza, obsolescenza ecc.) o per la mancanza di autorizzazioni amministrative all’edificazione, che secondo la circ. 9 luglio 2007 n. 44 dovrebbero invece passare per l’istanza di disapplicazione.