Per l’OCSE non rileva il periodo di permanenza degli amministratori al di fuori dei Paesi di residenza

Di Elio Andrea PALMITESSA

L’evolversi a livello globale dell’attuale situazione epidemiologica da COVID-19 ha richiesto l’adozione, da parte dei Governi nazionali, di misure straordinarie che hanno comportato una limitazione del diritto di libera circolazione delle persone, portando a chiedersi quali fossero gli esiti di tali misure sull’applicazione delle Convenzioni internazionali in materia tributaria nei casi riguardanti la fiscalità d’impresa.

In particolare, l’attuale situazione di contingenza potrebbe condurre a fenomeni di doppia residenza, dal momento che una perdurante fase di immobilità rischia di favorire il sopraggiungere di un collegamento di tipo personale fra gli amministratori dell’impresa e il territorio sul quale gli stessi si trovano dal momento del lockdown, inducendo le autorità fiscali dello Stato ospitante ad accertare la residenza dell’impresa sulla base delle proprie norme interne.

Il tema si presenta di particolare interesse nel caso di holding “statiche”, in quanto strutture caratterizzate da un profilo tendenzialmente “leggero” in termini di “sostanza economica” e presenza fisica nel Paese di insediamento (locali, personale e attrezzature), tenuto conto del ruolo di detenzione e gestione dei pacchetti azionari cui sono preposte.

Si pensi al caso degli amministratori di una holding estera che si trovavano in Italia al momento della chiusura ordinata dal Governo e ancora oggi impossibilitati a rientrare nei rispettivi Paesi di residenza.
Ora, l’art. 73 comma 3 del TUIR prevede che si possano considerare residenti in Italia le società che, per la maggior parte del periodo d’imposta, abbiano mantenuto sul territorio dello Stato (anche) la sede dell’amministrazione. È pacifico che nel caso di holding “statiche” questa venga a coincidere con il luogo in cui si collochi l’attività direttiva e decisionale dell’ente, mancando una vera e propria struttura organizzativa. In queste situazioni potrebbe crearsi quindi un conflitto di residenza.

La prassi convenzionale ha “storicamente” inteso affrontare questi casi proponendo di attribuire, con la “tie-breaker rule” contenuta nell’art. 4, par. 3 del Modello OCSE, la residenza nello Stato nel quale si trovasse la sede della direzione effettiva (come, ad esempio, la sede di riunione delle assemblee degli organi amministrativi o di tenuta dei documenti amministrativi e contabili). Difatti, solo con l’aggiornamento 2017 al Modello OCSE e relativo Commentario il riferimento alla sede della direzione effettiva della società, quale elemento di risoluzione dei casi di doppia residenza, è stato sostituito dal contraddittorio fra le autorità fiscali degli Stati contraenti, al fine di valutare la presenza di dati fattuali che possano comprovare un collegamento fra l’impresa ed il luogo della sede effettiva.

Del problema riguardante i rischi di doppia residenza fiscale nel corso di questa fase emergenziale si è occupato anche il Segretariato Generale OCSE, che lo scorso 3 aprile 2020, mediante il documento “Analysis of tax treaties and the impact of the Covid-19 crisis”, ha fornito indicazioni per superare i prevedibili approcci disallineati da parte delle Amministrazioni fiscali, chiarendo in sintesi che eventuali conflitti di residenza debbano essere risolti in favore del luogo nel quale gli amministratori della società abbiano mantenuto una presenza usuale e ordinaria nel corso dell’anno, piuttosto che solo temporanea ed eccezionale (senza contare che alcuni Paesi membri OCSE e non, come ad esempio Irlanda, Australia e India, hanno già annunciato che il periodo di lockdown forzato non condizionerà il test della residenza societaria).

Sebbene nel breve periodo i rischi succitati siano destinati allo stand by, anche alla luce delle riaperture programmate dal Governo italiano e da alcuni Paesi europei, l’Agenzia delle Entrate non si è pronunciata sul tema. Cosicché debbono ritenersi valide le indicazioni fornite dalla ris. n. 312/2007, con la quale l’Amministrazione finanziaria aveva ribadito che, in senso conforme all’Osservazione espressa dall’Italia al par. 25 dell’art. 4 del Commentario OCSE (vigente fino alla versione 2014), nella declinazione della nozione di sede di direzione effettiva non si deve fare esclusivo riferimento al luogo di svolgimento della prevalente attività direttiva e amministrativa, ma occorre prendere in considerazione anche il luogo ove è esercitata l’attività principale (tema certamente discutibile nel caso di holding di pura partecipazione, non fornendo la stessa servizi amministrativi, finanziari e commerciali alle proprie controllate).

Su quest’ultimo aspetto la giurisprudenza domestica ha comunque mantenuto un approccio altalenante. In certi casi, riguardanti le contestazioni di esterovestizione societaria, nell’allocazione della residenza fiscale ha inteso infatti valorizzare la presenza di una (pur minima) struttura societaria (cfr. Cass. n. 43809/2015, Cass. nn. 33234-33235 del 2018) piuttosto che il luogo dal quale promanassero gli impulsi volitivi inerenti all’attività dell’ente (cfr. Cass. n. 16697/2019): ad ogni modo, la localizzazione della sede di direzione effettiva non può derogare a una valutazione che tenga conto delle peculiarità (natura e funzioni) di una holding (Cass. n. 27113/2016).