Il limite ex art. 76 del DPR 602/73 riguarda l’“unico immobile” di proprietà del debitore, dunque la consistenza del patrimonio, non la qualificazione

Di Maria Francesca ARTUSI

Il limite all’espropriazione dell’“unico immobile di proprieta” del debitore – fissato dal comma 1 lettera a) dell’art. 76 del DPR 602/1973 nel testo introdotto dall’art. 52 comma 1 lettera g) del DL 69/2013 – non trova applicazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo ad essa preordinato. Tale norma ha, infatti, riguardo unicamente alle espropriazioni da parte del Fisco e non a quelle promosse da altre categorie di creditori.
Così conclude il suo articolato iter argomentativo la sentenza n. 8995 della Cassazione depositata ieri.

Nel caso di specie, il legale rappresentante di una società aveva proposto ricorso per cassazione al fine di negare la confiscabilità – a fronte della contestazione di un reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – dell’immobile indicato quale sua “prima casa”, facendo leva proprio sulla citata disposizione.

I giudici di legittimità non condividono, tuttavia, tale affermazione. Dalla formulazione letterale dell’art. 76 del DPR 602/1973 emerge, in primo luogo, che il limite posto dal legislatore all’espropriazione immobiliare non riguarda la “prima casa”, ma “l’unico immobile di proprietà del debitore”; quest’ultimo è un concetto essenzialmente differente, poiché ha a che fare con la consistenza complessiva del patrimonio del debitore e non semplicemente con la qualificazione del singolo immobile oggetto di pignoramento. Ne consegue che per invocare l’applicazione della disposizione in tema di espropriazione immobiliare, il debitore non può limitarsi a prospettare che l’immobile pignorato è la sua “prima casa”, perché una tale prospettazione non esclude di per sé che lo stesso debitore sia proprietario di altri immobili.

Viene, poi rilevato che – contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente – la disposizione in questione non fissa un principio generale di impignorabilità, perché si riferisce solo alle espropriazioni da parte del Fisco per debiti tributari e non a quelle promosse da altre categorie di creditori per debiti di altro tipo.
Né, come si è detto, la disposizione in questione può trovare applicazione in relazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, perché l’oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il Fisco.

Per i giudici di legittimità, tali due concetti devono essere tenuti distinti, perché il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende né le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (Cass. n. 17535/2019 e Cass. n. 28047/2017), né gli interessi maturati in favore dello Stato (Cass. n. 40358/2016); mentre il debito verso l’Erario è sempre comprensivo dell’originario debito tributario, degli interessi e delle sanzioni.

In proposito, va dato atto che altra giurisprudenza (Cass. n. 3011/2017) ha ritenuto che la disposizione che vieta all’agente della riscossione, in specifiche ipotesi e condizioni, di procedere all’espropriazione della “prima casa” del debitore preclude l’applicazione del sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, dell’abitazione di un soggetto indagato per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte previsto dall’art. 11 comma 1 del DLgs. 74/2000.

Ma in quell’ipotesi si faceva riferimento ad un delitto commesso mediante l’alienazione simulata di un cespite immobiliare, e pertanto l’immobile rilevava di per sé quale oggetto materiale della condotta. Era stato, così, affermato che consentire la confisca diretta di un bene che non può più essere oggetto di espropriazione immobiliare e che dunque non costituisce più profitto del reato, equivale a consentire in modo surrettizio quel che il legislatore espressamente esclude, perché la confisca costituirebbe, di fatto, una misura inutilmente punitiva e ingiustamente afflittiva che si aggiungerebbe alla pena principale prevista per il reato, trasformandosi in una vera e propria confisca di valore.

In definitiva, la sentenza oggi in commento esclude che il divieto di espropriazione esprima un principio generale applicabile alla “prima casa” del debitore tributario e, per conseguenza, rigetta il ricorso del soggetto indagato.