La Corte Costituzionale deposita le motivazioni e restituisce gli atti ai giudici rimettenti perché valutino se altre censure siano ancora rilevanti

Di Stefano COMELLINI

È stata depositata ieri la sentenza n. 32 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’applicazione retroattiva della L. 3/2019 (c.d. spazzacorrotti) che ha esteso ai reati contro la P.A. commessi prima della sua entrata in vigore (31 gennaio 2019) le preclusioni previste dall’art. 4-bis della L. 354/1975 in tema di concessione dei benefici e delle misure alternative alla detenzione. La decisione era stata anticipata con il comunicato del 12 febbraio scorso ma solo ora si conoscono le motivazioni. Sempre ieri, la Consulta ha riferito con un comunicato di avere preso in esame altri aspetti della L. 3/2019, direttamente connessi alla pronuncia depositata.

Il tema oggetto della sentenza n. 32 era la legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 6 lett. b) della L. n. 3/2019, con cui si erano inseriti nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis comma 1 della L. 354/1975 i reati contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314 comma 1, 317318319319-bis319-ter319-quater comma 1, 320321322 e 322-bis c.p. Di conseguenza, tali reati risultavano soggetti al medesimo regime “ostativo” – per la concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata – che vige per i gravi delitti già compresi nello stesso art. 4-bis e per cui la concedibilità può darsi solo a fronte di una collaborazione con la giustizia ex artt. 58-ter della L. 354/1975 e 323-bis c.p. e salve, altresì, le ipotesi di collaborazione “inesigibile” (art. 4-bis comma 1-bis della L. 354/1975).

Il punto essenziale all’esame della Consulta era dato dal silenzio del legislatore circa l’efficacia nel tempo della disposizione censurata, così da doversi ritenere le modifiche in peius immediatamente applicabili anche ai condannati per fatti commessi prima della vigenza della L. n. 3/2019. Proprio l’assenza di una disciplina transitoria aveva indotto nella giurisprudenza di merito e, in qualche caso, anche in quella di legittimità perplessità riguardo alla sostenibilità costituzionale dell’applicazione normativa anche ai condannati per fatti pregressi. Con l’effetto, sia di pronunce di merito che avevano direttamente adottato una soluzione difforme; sia di numerose ordinanze che avevano sollevato le questioni di legittimità risolte dalla pronuncia in esame.

La Consulta ha ritenuto che la norma censurata si ponga in contrasto con l’art. 25, comma 2 Cost. poiché il principio per cui le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione deve trovare eccezione qualora la nuova disciplina comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del reato, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale.

Sul punto la Consulta richiama anche principi già espressi dalla Corte EDU, (sentenza Grande Camera del 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna) per cui in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta per quelle che determinino una modificazione della portata applicativa della pena imposta dal giudice. Altrimenti, gli Stati resterebbero liberi di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato.

Nello stesso senso, la Corte Suprema degli Stati Uniti, per cui il generale divieto di “ex post facto laws” sancito dalla Costituzione americana si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato (“Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433, 1997”). Nell’ordinamento francese, anche l’art. 112-2 codice penale impedisce, in linea generale, norme che abbiano l’effetto di rendere retroattivamente più severe le pene inflitte con la sentenza di condanna.

L’art. 1 comma 6 lett. b) della L. n. 3/2019 ha comportato, per i reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della natura della pena prevista al momento del reato e della sua incidenza sulla libertà personale del condannato, in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, per la Consulta non può che ritenersi l’illegittimità costituzionale della norma dichiarata con la sentenza n. 32.

All’esito udienza di ieri, la Corte Costituzionale nuovamente chiamata a valutare la legittimità della L. n. 3/2019, in specie se l’inserimento dei reati di peculato e induzione indebita tra i delitti “ostativi” all’accesso a qualunque beneficio penitenziario in assenza di collaborazione con la giustizia sia compatibile con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena previsti, rispettivamente, dagli artt. 3 e 27 Cost., ha deliberato la restituzione degli atti ai giudici rimettenti affinché valutino se, ai fini della loro decisione, le censure sollevate siano ancora rilevanti alla luce della sentenza n. 32/2020.