Il nuovo art. 25-quinquiesdecies del DLgs. 231/2001 cambia il quadro normativo ma il principio resta valido se è esclusa la responsabilità dell’ente

Di Stefano COMELLINI

Con la sentenza n. 3458 depositata ieri, la Cassazione ha affermato la legittimità della costituzione di parte civile di una spa nel processo penale per reati tributari a carico del suo legale rappresentante. Si tratta tuttavia di un principio di diritto che occorre rimodulare a fronte dell’attuale contesto normativo, profondamente modificato con l’inserimento di alcuni reati tributari (art. 25-quinquiesdecies) nel DLgs. 231/2001.

La Corte ha ritenuto legittima la costituzione di parte civile della società, in nome della quale il ricorrente aveva agito quale amministratore, e corretta la condanna di questi al risarcimento del danno a favore dell’ente per i danni provocati dai reati tributari contestatigli ex artt. 2 e 8 del DLgs. 74/2000.

Per la Corte la legittimazione ad agire – ivi compreso l’esercizio dell’azione civile nel processo penale – consiste nella titolarità del potere di promuovere un giudizio relativo al rapporto sostanziale dedotto in causa e deve essere verificata sulla base della prospettazione dell’attore (qui la costituita parte civile) sulla scorta delle ragioni di fatto e diritto su cui in astratto si fonda il diritto azionato, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, che attiene al merito della lite (Cass. n. 14468/2008).

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che l’azione portata nel processo per reati tributari, dalla società nei confronti del legale rappresentante, fosse legittima sia sotto il profilo del danno di immagine, sia per il danno patrimoniale derivante dall’obbligazione di pagamento per le sanzioni amministrative e gli interessi conseguenti alle condotte illecite del ricorrente.

La circostanza che persona offesa dei reati tributari sia l’Amministrazione finanziaria, quale titolare del bene giuridico protetto, non esclude che vi siano altri soggetti danneggiati dalle medesime condotte. In questo senso, la Corte si era già espressa per quanto concerne la legittimazione del curatore a costituirsi nei confronti degli autori di reati tributari che abbiano indotto, per sanzioni e interessi, un ingente debito tributario e quindi un decremento del patrimonio sociale della società fallita (Cass. n. 14729/2008).

Tuttavia, nel periodo tra la decisione e il deposito della sua motivazione, il contesto normativo è radicalmente mutato in virtù dell’introduzione nel DLgs. 231/2001 dell’art. 25-quinquiesdecies in cui si prevedono per gli enti sanzioni pecuniarie e interdittive a seguito della commissione, tra gli altri, dei “reati-presupposto” di cui agli artt. 2 e 8 DLgs. 74/2000.

Lasciando qui da parte le discussioni dottrinali circa le ragioni della (ora non più) mancata inclusione dei reati tributari nel “sistema 231”, per lo più ricondotte all’esigenza di evitare duplicazioni sanzionatorie, penali e amministrative, ne consegue che per tali reati, commessi a far tempo dal 24 dicembre 2019, ricorrendo i criteri di imputazione della responsabilità amministrativa ex DLgs. 231/2001, l’ente dovrà rispondere direttamente secondo l’art. 25-quinquiesdecies, con inevitabile preclusione di ogni diritto a costituirsi parte civile nei confronti del soggetto autore del reato.
Il principio di diritto espresso nella sentenza può riacquistare rilievo qualora l’ente dimostri la piena ricorrenza delle condizioni di esclusione della propria responsabilità, come previste agli artt. 5 commi 2, 6 e 7 del DLgs. 231/2001.

Solo in questo caso, se l’immunità dell’ente dalla propria responsabilità fosse sancita in un tempo proceduralmente utile, potrebbe consentirsi la sua costituzione di parte civile, per i danni patrimoniali e non patrimoniali, nel processo penale a carico della persona fisica, apicale o sottoposta. In altre parole, e rimanendo per i reati fiscali sulla più consueta figura dell’amministratore, si tratta dell’esercizio in sede penale dell’azione di responsabilità ex art. 2393 c.c.

Il mutato contesto normativo incide anche sull’aspetto della confisca per equivalente prevista dall’art. 12-bis del DLgs. n. 81/2008, disposta a carico dell’imputato ed annullata dalla Corte a fronte della maturata prescrizione dei reati contestati. La confisca per equivalente prevista dall’art. 12-bis del DLgs. 74/2000 può, infatti, essere disposta solo con la sentenza di condanna o di patteggiamento in quanto, a differenza della confisca diretta che ha natura di misura di sicurezza, essa ha carattere afflittivo e sanzionatorio (Cass. SS.UU. n. 18374/2013) e quindi non può essere disposta nel caso di estinzione del reato (Cass. SS.UU. n. 31617/2015).

L’inserimento delle fattispecie fiscali nel “sistema 231” consente ora nei confronti dell’ente, ex art. 19 del DLgs. 231/2001, la (sanzione principale e autonoma della) confisca diretta o per equivalente del profitto o del prezzo dell’illecito, nonché il sequestro preventivo a tal fine ex art. 53 del DLgs. 231/2001; in tal modo, superandosi le pronunce giurisprudenziali che avevano escluso la confisca per equivalente sul patrimonio dell’ente per la violazione fiscale commessa da un suo organo, proprio a fronte della mancata inclusione dei reati fiscali nel DLgs. 231/2001, salvo il caso in cui la persona giuridica fosse un mero schermo per la effettiva titolarità dei beni della persona fisica.