L’entità del limite annuale di compensabilità dei crediti non riguarda la struttura essenziale del reato
Il limite massimo annuale di compensazione non è un elemento essenziale della fattispecie di indebita compensazione (art. 10-quater del DLgs. 74/2000). Il suo innalzamento, quindi, non vale, eventualmente, a rendere lecita la precedente condotta.
A stabilirlo è la Cassazione, nella sentenza n. 48017, depositata ieri, che implicitamente conferma anche il fatto che la nozione di crediti “non spettanti” comprende altresì il caso di utilizzo di un credito certamente esistente ma non utilizzabile per la parte eccedente il limite stabilito dalla legge (cfr. Cass. nn. 48211/2015 e 36393/2015).
Al momento della condotta contestata, la fattispecie in questione puniva con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versasse le somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del DLgs. 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti per un ammontare superiore a 50.000 euro per ciascun periodo d’imposta. Tale fattispecie è stata rivista dal DLgs. 158/2015.
Si è distinto, infatti, a seconda che l’indebita compensazione sia integrata tramite crediti non spettanti o inesistenti. Ferma, in ogni caso, la soglia sopra i 50.000 euro, nella prima ipotesi (crediti non spettanti), la sanzione è rimasta quella della reclusione da sei mesi a due anni, nella seconda (crediti inesistenti), invece, la sanzione è quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
Solo per inciso, poi, si segnala che, qualora le indicazioni del recente DL 124/2019 dovessero essere confermate in sede di conversione in legge, in caso di condanna o di “patteggiamento” (anche) per tale fattispecie sarà applicabile la c.d. confisca “per sproporzione” o “allargata” di cui all’art. 240-bis c.p. in presenza di crediti non spettanti o inesistenti superiori a 100.000 euro.
Ad ogni modo, nel caso affrontato dalla decisione in commento, il rappresentante legale di una spa utilizzava in compensazione, nel corso del 2011, crediti della società per un importo complessivo superiore al limite al tempo consentito dall’art. 34 comma 1 della L. 388/2000 e pari a 516.456,90 euro. In particolare, tale limite risultava superato di 218.926,88 euro.
Successivamente, però, a decorrere dal 2014, l’art. 9 comma 2 del DL 35/2013 convertito ha elevato tale limite a 700.000 euro.
A fronte di tale situazione, il Tribunale di primo grado, nel settembre 2016, assolveva l’imputato per non avere commesso il fatto, in applicazione della sopravvenuta disciplina più favorevole, ex art. 2 comma 4 c.p. L’importo complessivo compensato nel corso del 2011, infatti, era pari a 735.383,78 euro, ovvero una misura superiore al nuovo limite di 700.000 euro (di 35.383,78 euro), ma inferiore alla soglia di punibilità di 50.000 euro.
I giudici di appello, invece, nell’ottobre del 2018, ritenevano non applicabile l’art. 2 comma 4 c.p., per cui il successivo innalzamento del limite poteva riguardare solo fatti commessi successivamente all’operatività della nuova soglia. L’imputato, quindi, veniva condannato a un anno di reclusione.
La Cassazione reputa corretta quest’ultima impostazione.
Il reato contestato si configura sia in caso di compensazione c.d. “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, sia in caso di compensazione c.d. “verticale”, riguardante crediti e debiti per tributi di natura omogenea. L’essenza della condotta rilevante non è l’omogeneità o l’eterogeneità delle imposte compensate, ma il “proditorio” utilizzo di un istituto in assenza di un valido titolo.
Peraltro, è la stessa denominazione utilizzata dal legislatore a evidenziare come la compensazione sia “indebita” proprio quando si presenti estranea al modello legale dell’istituto disegnato dalla normativa tributaria o sia attuata attraverso una distorta rappresentazione della realtà. Il nucleo essenziale dell’imputazione, infatti, risiede nell’illegittimo ricorso alla compensazione di cui all’art. 17 del DLgs. 241/1997.
Rispetto a tutto ciò, l’entità del limite annuale di compensabilità dei crediti non assume rilievo decisivo ai fini della sussistenza della fattispecie contestata, trattandosi di un aspetto che non qualifica il disvalore della condotta. La norma incriminatrice, infatti, non ne fa menzione, mentre è l’importo dei crediti non spettanti o inesistenti (indebitamente) utilizzati in compensazione a determinare la rilevanza penale del fatto; e tale importo, nel caso di specie, non ha subito alcuna variazione.
Dunque, riguardando la modifica normativa un elemento non essenziale della fattispecie, deve applicarsi quell’orientamento secondo il quale, in tema di successione di leggi penali nel tempo, il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall’art. 2 comma 4 c.p., non si applica in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato (e quindi sulla fattispecie tipica), ma comportino esclusivamente una variazione del contenuto del precetto, delineando la portata del comando (cfr. Cass. n. 11905/2016).