In sede ordinaria, il contribuente può confutare l’accertamento del maggior imponibile

Di Alfio CISSELLO

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23301 depositata ieri, si è, per quanto ci consta per la prima volta, pronunciata sugli effetti, ai fini dei contributi previdenziali determinati in base alla dichiarazione dei redditi, della definizione della lite tributaria.
Si tratta di una questione della massima importanza, su cui si registra un folto contenzioso, specie in merito ai contributi INPS spettanti alla Gestione artigiani e commercianti e alla Gestione separata.

Il caso di specie riguardava gli effetti contributivi della definizione di cui all’art. 39 comma 12 del DL 98/2011, ma il principio può agevolmente estendersi alle altre definizioni delle liti tributarie, come ad esempio quelle disciplinate dall’art. 16 della L. 289/2002, dall’art. 11 del DL 50/2017 e, da ultimo, dall’art. 6 del DL 119/2018.
I giudici di merito, sul tema, sono andati in assoluto ordine sparso.

Infatti, nel contempo è stato affermato che l’accertamento INPS non può più essere contestato se la lite tributaria viene definita (in sostanza, nel momento in cui il contribuente rinuncia a contestare la pretesa definendo, implicitamente sta rinunciando altresì a contestare i contributi), che la definizione, all’opposto, automaticamente pone nel nulla la pretesa dell’INPS, che vale quanto ab origine dichiarato dal contribuente nel quadro RR e, tesi “salomonica”, che i contributi sono dovuti applicando le medesime percentuali di stralcio dell’imposta conseguenti alla definizione fiscale.

Con la sentenza depositata ieri, la Cassazione ha adottato una soluzione in gran parte condivisibile, sancendo che la definizione delle liti pendenti di cui all’art. 39 comma 12 del DL 98/2011 ha effetto esclusivamente sul versante fiscale e non in ambito contributivo.
Ciò lo si nota dal fatto che possono essere definite unicamente le controversie instaurate dinanzi alla giurisdizione tributaria, e non ordinaria.
Pertanto, non si può sostenere che, definita la lite fiscale sull’avviso di accertamento da cui ha tratto origine la pretesa contributiva, questa non sia più contestabile.

Il ragionamento esposto (ma di ciò la sentenza non parla) sembra valere, a maggior ragione, per i contributi dovuti alle Casse professionali, vista l’autonomia, legislativamente stabilita, di queste ultime (si veda “Per i contributi alle Casse professionali non conta il concordato preventivo biennale” del 12 febbraio 2019).

Ove il legislatore, precisano i giudici, ha inteso, in via eccezionale, estendere una definizione fiscale in ambito contributivo lo ha fatto espressamente, come in tema di mediazione fiscale (art. 17-bis del DLgs. 546/92) o di accertamento con adesione (artt. 2 del DLgs. 218/97).
Nelle menzionate ipotesi, la definizione ha effetto contributivo (quindi bisogna, ai fini della sua validità, pagare anche i contributi) e sui maggiori contributi non sono dovuti sanzioni e interessi.
In casi diversi da quelli indicati, la definizione fiscale concordata non può incidere sull’imponibile contributivo.

Vero è che, come affermato dalla Cassazione, gli atti di accertamento fiscale costituiscono anche atti di esercizio del rapporto previdenziale, dunque l’INPS, esibito l’accertamento, ha in sostanza adempiuto ai propri oneri probatori.
Tuttavia, e questo è un passaggio molto importante, “dalla portata presuntiva dell’accertamento tributario si desume la necessità che lo stesso venga in qualche modo resistito dal contribuente che intenda, invece, evitare il consolidamento dell’accertamento stesso e ciò può avvenire con qualsiasi mezzo”.

Infatti, il sistema di riscossione dei contributi attuale è il seguente: se c’è un accertamento del maggior reddito, i contributi vengono solo indicati nell’accertamento stesso, ma la pretesa verrà richiesta dall’INPS mediante avviso di addebito ex art. 30 del DL 78/2010 (lo stesso, in sostanza, se si appura un omesso versamento, in quanto le Entrate non possono più, dopo il DL 78/2010, iscrivere a ruolo i contributi INPS).

Non esiste però alcuna “pregiudiziale tributaria”, quindi il contribuente può in qualsiasi modo censurare il maggior imponibile contributivo, a nulla rilevando che il rapporto fiscale sia stato definito, salve le eccezioni di legge.