Qualche problema di irretroattività potrebbe porsi in relazione al reato di occultamento o distruzione di documenti contabili
La confisca del profitto è obbligatoria per tutti i reati tributari, anche se commessi in data anteriore all’introduzione dell’art. 12-bis del DLgs. 74/2000.
Tale norma prevede che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dallo stesso DLgs. 74/2000, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Si tratta di una delle novità della riforma del diritto penale-tributario realizzata dal DLgs. 158/2015, in vigore dal 22 ottobre 2015.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25536 depositata ieri, precisa che, pur avendo tale disposizione “certamente contenuto sanzionatorio”, non si pone una questione di violazione del principio di irretroattività stabilito per la legge penale sia dalla Costituzione (art. 25 Cost.) che dal codice (art. 2 c.p.), “stante il pacifico regime di continuità normativa, tale da non porre in discussione alcun profilo inerente alla possibile successione di leggi nel tempo” fra questa disciplina e quella precedentemente oggetto dell’art. 1 comma 143 della L. 244/2007, la quale già prevedeva il generale regime di confisca per equivalente dei beni costituenti profitto o prezzo della commissione di reati tributari.
Tale principio era già stato affermato all’indomani della riforma dalla pronuncia della Cassazione n. 35226/2016 e recentemente è stato ribadito dalla sentenza n. 13070/2019.
Alla luce di queste argomentazioni la misura di sicurezza in esame deve ritenersi applicabile a tutti i reati previsti dal DLgs. 74/2000, ove commessi in epoca successiva all’entrata in vigore della citata L. 244/2007, cioè successivamente al 1° gennaio 2008 (cfr. anche Cass. n. 10598/2018). Si noti che, in realtà, qualche problema di irretroattività potrebbe porsi in relazione al reato di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del DLgs. 74/2000) che non era preso in considerazione dalla normativa antecedente al 2015; ma si tratta più che altro di un caso di difficile verificazione in quanto generalmente tale fattispecie non genera un’imposta evasa – confiscabile – ma soltanto un’attività di ostacolo all’accertamento delle imposte da parte dell’amministrazione finanziaria.
Nel caso affrontato dalla sentenza oggi in commento, il delitto contestato era quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti ex art. 8 del DLgs. 74/2000, con riferimento a documentazione emessa negli anni di imposta 2011 e 2012. In una tale fattispecie l’entità dei beni confiscabili, anche per equivalente, deve essere rapportata non al profitto eventualmente conseguito dai terzi per effetto della emissione da parte dell’imputato di fatture aventi ad oggetto operazioni inesistenti, ma solo al prezzo del reato, cioè all’eventuale compenso che l’autore del fatto illecito abbia percepito per la emissione di tali fatture.
Questa limitazione viene giustificata dalla giurisprudenza in ragione della espressa deroga al regime del concorso di persone nel reato fra chi emette fatture per operazioni inesistenti e chi le utilizza, sancito dall’art. 9 del DLgs. 74/2000, il che – precisano i giudici di legittimità – rende inapplicabile il generale principio solidaristico in tema di confiscabilità del profitto del reato, sussistente solo fra i soggetti concorrenti nel medesimo reato (cfr. Cass. n. 43952/2016 e Cass. n. 15458/2016).
La Cassazione censura qui la scelta del tribunale di merito che, pur dichiarando la penale responsabilità del legale rappresentante di una srl che – come si è detto – aveva emesso fatture relative ad operazioni inesistenti al fine di consentire ad un soggetto terzo l’evasione delle imposte, aveva del tutto omesso di provvedere in ordine alla necessaria confisca. Tale provvedimento ha, infatti, natura obbligatoria (“è sempre ordinata la confisca”), tanto che la Corte di legittimità ritiene necessario un rinvio per un nuovo giudizio sul punto.