La Suprema Corte sembra poter rivedere la propria giurisprudenza penale per evitare l’aggiramento del divieto in sede tributaria
L’art. 76 comma 1 del DPR 602/73, come modificato dall’art. 52 comma 1 lett. g) del DL 69/2013, dispone che l’agente della riscossione non può dare corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso e dei fabbricati specificamente individuati, è adibito a uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente.
Si tratta di una disposizione che, a fronte di determinati presupposti, non consente, nell’ambito della riscossione tributaria, l’espropriazione della “prima casa” del soggetto obbligato, in ossequio al principio di tutela del diritto costituzionale di abitazione (art. 47 Cost.).
Di qui, da parte di soggetti attinti in sede penale da provvedimenti di vincolo immobiliare, le ripetute, ma vane, istanze difensive per estendere a tale ambito il portato della disposizione. La Suprema Corte ha, infatti, costantemente risposto in senso negativo (Cass. n. 7359/2014) affermando che la disposizione di cui all’art. 52 comma 1 lett. g) del DL 69/2013 non trova applicazione nell’ambito del processo penale e, pertanto, non impedisce il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, dell’abitazione dell’indagato.
Si è, infatti osservato, ancora di recente (Cass. n. 48616/2018), che tale limite della riscossione tributaria non può costituire regola generale ché, altrimenti, si sottrarrebbe a qualsiasi procedura esecutiva civile e a qualsiasi vincolo di natura penale la prima abitazione.
Con la sentenza n. 22581 depositata ieri, la Cassazione sembra aprire a un diverso e più favorevole orientamento, in linea con quella sua giurisprudenza che, in tema di provvedimento ablatorio penale ex art. 322-ter c.p., riconosce valore di regola generale dell’ordinamento processuale al divieto di sequestro e pignoramento di trattamenti retributivi, pensionistici ed assistenziali in misura eccedente il limite normativamente previsto, stante la riconducibilità dei predetti trattamenti, nella residua misura non vincolabile, nell’area dei diritti inalienabili della persona, tutelati dall’art. 2 della Costituzione (Cass. n. 15795/2015).
In particolare, si è precisato che l’impignorabilità parziale di trattamenti pensionistici è posta a tutela dell’interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.); tale finalità risulta ancora più marcata dopo l’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, efficace dal 1° dicembre 2009, che, all’art. 34 comma 3, garantisce il riconoscimento del diritto all’assistenza sociale al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti.
È ben vero che tale principio era stato successivamente temperato con il riferire il limite di pignorabilità dei trattamenti pensionistici, o a essi assimilati, al solo processo esecutivo, a tutela dell’interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al percettore (qui, il pensionato) i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (Cass. n. 6548/2011), evitando che possano essergli sottratti prima della corresponsione, ma escludendosi che il limite possa operare al di fuori di tale processo ovvero, soprattutto, quando le somme erogate a titolo di pensione siano state corrisposte all’avente diritto e si trovino confuse con il suo restante patrimonio.
In ogni caso, nel ricordare il proprio orientamento circa i limiti di sequestrabilità penale del quinto della retribuzione, la Cassazione mostra, con la sentenza in commento, di poter rivedere la propria giurisprudenza al fine di limitare anche il vincolo penale per equivalente sulla prima casa, al fine di evitare un aggiramento, per quella via, del divieto formulato in sede tributaria al diritto costituzionale di abitazione. Tuttavia, la prospettata possibilità di revisione – così solo accennata – non ha potuto trovare accoglimento da parte della Corte, in mancanza, nel caso di specie, di una concreta dimostrazione, da parte del ricorrente, circa la natura di “prima casa” dell’immobile in sequestro.
In linea generale, i limiti della riscossione tributaria possono incidere, non solo sulla effettiva possibilità di escutere forzatamente il patrimonio immobiliare del debitore, ma anche sull’offensività della condotta criminosa e, in sede cautelare, sulla stessa sussistenza dei presupposti applicativi del sequestro in forma diretta. Al proposito, può richiamarsi la fattispecie ex art. 11 del DLgs. 74/2000 che, stante la sua natura di reato di pericolo concreto, esige che la condotta sia tale da rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Poiché tale procedura, come si è visto, ha precisi presupposti, l’alienazione del cespite immobiliare “prima casa” risulta irrilevante ai fini della riscossione stessa e comporta l’inefficacia ex ante della condotta astrattamente sanzionata dalla norma precettiva. In questo caso, l’immobile sottratto alla riscossione non costituisce profitto del reato e, quindi, non può essere oggetto di confisca diretta che costituirebbe, di fatto, una misura inutilmente punitiva e ingiustamente afflittiva in aggiunta alla pena principale prevista per il reato, trasformandosi in una vera e propria confisca di valore (Cass. n. 3011/2016).