La nozione di reddito presunto, imputato alle società non operative, non può essere estesa ai fini contributivi
Di fronte a una richiesta dell’INPS di contributi previdenziali mediante avviso di addebito di cui all’art. 30 del DL 78/2010, il debitore può rivolgersi al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, depositando il ricorso, a pena di decadenza, entro 40 giorni dalla notifica dell’atto.
Spunti di difesa possono emergere quando la pretesa contributiva deriva da forme di determinazione del reddito fiscale presuntive.
Nel caso affrontato dal Tribunale di Cuneo n. 161/2018, un contribuente era stato destinatario di un avviso di addebito per mancato versamento dei contributi in ragione del reddito derivante dalla sua partecipazione al 50% in una snc.
Come confermato in sede giudiziale sia dal funzionario dell’INPS sia dal commercialista della società, la società era da considerarsi non operativa e, pertanto, vi era stata applicazione della disciplina prevista dall’art. 30 della L. 724/94.
La qualifica di società non operativa determina, ai fini delle imposte dirette, l’imputazione di un reddito minimo, calcolato, in via presuntiva, quale somma degli importi ottenuti applicando ai valori di determinati beni le percentuali previste dal già richiamato art. 30 comma 3 della Legge 724/94.
La norma deve essere, necessariamente, raccordata con quanto previsto dall’art. 1, comma 1, della L. 233/90, la quale specifica che l’onere contributivo dovuto dagli iscritti alle Gestioni artigiani e commercianti “è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”.
Secondo i giudici cuneesi, la regola generale secondo cui bisogna avere effettivo riguardo a un imponibile non limitato al reddito derivante dalla sola attività che dà titolo all’iscrizione alla Gestione, ma, potenzialmente, esteso a tutti i redditi d’impresa denunciati dal soggetto, soffre di un’eccezione in caso di società di comodo.
Il ragionamento dei giudici prende le mosse dal concetto di “reddito” quale sinonimo di “guadagno”.
La disciplina delle società di comodo, si rileva in sentenza, è nata proprio al fine di “penalizzare”, sul piano tributario, le società “senza impresa”, quelle cioè che, al di là dell’oggetto sociale dichiarato, sono costituite al solo fine di amministrare i patrimoni personali dei soci, “anziché per esercitare un’effettiva attività commerciale”.
Il rinvio operato dall’art. 3-bis del DL 384/92, secondo cui “l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’articolo 1 della L. 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”, non può prescindere dallo stesso concetto di “reddito” quale effettiva posta attiva.
Si tratterebbe, nel caso del reddito imputato alle società di comodo, per definizione, di un reddito presunto, fittizio, elaborato a fini, in senso lato, “sanzionatori”, non estensibile pertanto a situazioni diverse da quelle tributarie.
Pertanto, tale nozione non può essere estesa ai fini contributivi, da ciò derivando l’illegittimità dell’avviso di addebito in quanto le somme a titolo contributivo sono da considerarsi non dovute.