Non è però ancora non del tutto chiara la portata dell’art. 30-ter del decreto IVA
La sentenza della Corte di Cassazione n. 23288/2018 offre lo spunto per ritornare sul tema degli strumenti di recupero, concessi al cessionario, dell’IVA indebitamente versata al cedente.
In quella occasione, i giudici di legittimità hanno concluso nel senso che “il cessionario non è legittimato a richiedere al fisco il rimborso dell’IVA di rivalsa che assume indebitamente assolta, a differenza del caso in cui l’IVA indebitamente versata in rivalsa sull’acquisto di beni e servizi destinati all’esercizio dell’attività economica venga a riflettersi sulla liquidazione finale dell’imposta, determinando un’eccedenza rimborsabile”.
Il tema sul quale la Suprema Corte interviene attiene, in estrema sintesi, alla legittimazione (sostanziale) del cessionario-committente a richiedere direttamente all’Erario la restituzione dell’imposta pagata e non dovuta. La conclusione non è chiara ed è opportuno, a tal proposito, dare atto delle motivazioni adottate dalla Suprema Corte, che si snodano in due significativi passaggi, meritevoli di alcune riflessioni.
Preliminarmente, va rilevato che l’intervento analizza una fattispecie di restituzione dell’IVA indebita ante 2017, ove l’unico strumento per il soggetto passivo, ai fini della restituzione nei confronti dell’Erario, è costituito dall’art. 21 comma 2 del DLgs. 546/92 (c.d. rimborso anomalo).
La Suprema Corte, nel primo passaggio motivazionale, non ritiene che il cessionario/committente abbia il potere di richiedere la restituzione dell’IVA indebita all’Erario. Il meccanismo della rivalsa, infatti, genera un rapporto trilaterale, in cui solo il cedente/prestatore può agire per il rimborso nei confronti dell’Erario (ex multis, vengono citate Cass. 6 luglio 2011 n. 14933 e 26 agosto 2015 n. 17169; con riferimento alla triplice natura dei rapporti, cfr. Cass. SS.UU. 20 luglio 2017 n. 26437). Il cessionario/committente, invece, può esercitare solo un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del cedente/prestatore per recuperare l’ammontare versato indebitamente.
Ancora, secondo la Cassazione in commento, solo se il rimborso risulti impossibile o eccessivamente difficile, il principio di effettività legittima il cessionario/committente ad agire direttamente nei confronti delle autorità tributarie (ricorre questa ipotesi, ad esempio, nel caso di fallimento del cedente/prestatore; Corte di Giustizia, causa C-564/15, Farkas; cause C-660/16 e C-661/16, KollroB e Wirti).
Nel secondo passaggio motivazionale, però, la Suprema Corte ritiene che questa soluzione non sia contraddetta dall’opposto indirizzo, che legittima il cessionario, che sia al tempo stesso soggetto passivo d’imposta in relazione alle operazioni da lui realizzate, a indirizzare la propria pretesa direttamente nei confronti dell’Erario (cfr. le sentenze richiamate: Cass. SS.UU. 31 luglio 2008 n. 20752; Cass. 8 giugno 2011 n. 12433; Cass. 26 ottobre 2012 n. 18425).
Infatti, continua la Suprema Corte, la legittimazione del cessionario/committente sussiste se l’IVA indebitamente versata in rivalsa si riflette sulla liquidazione finale dell’imposta, esposta nella dichiarazione annuale del contribuente, e il Fisco contesti la detrazione, perché relativa a operazione esente o non imponibile, o perché assoggettabile a un’aliquota inferiore rispetto a quella indicata erroneamente in fattura (sottolineano questa distinzione Cass. 26 agosto 2015 n. 17174 e 6 dicembre 2016 n. 24923).
Inizialmente, quindi, la Cassazione accoglie la soluzione, secondo la quale, in ragione dell’autonomia dei rapporti che si instaurano nel quadro della rivalsa-detrazione, il diritto alla restituzione andrebbe richiesto solo da chi ha versato l’ammontare di imposta all’Erario, ossia dal cedente/prestatore.
Nel secondo passaggio motivazionale, invece, si afferma che “riemerge il rapporto tributario” (tra cessionario/committente e l’Erario) se l’IVA indebita confluisce nella liquidazione annuale e il Fisco contesti la detrazione.
Il ragionamento della Corte suscita perplessità, ma il vero problema è che, alla luce del nuovo art. 30-ter del DPR 633/72, l’annosa questione è destinata a riproporsi, salvo che si accolga una nozione ampia di soggetto passivo (che includa anche la posizione del cessionario/committente).