È incostituzionale il meccanismo di automatica determinazione dell’indennità per licenziamento illegittimo
È stata finalmente depositata ieri, con il n. 194, la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del DLgs 23/2015, che fissava l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo in una misura fissa, pari a due mensilità per ogni anno di servizio. La decisione era stata anticipata dall’Ufficio Stampa della Corte con un comunicato del 26 settembre, ma solo con il deposito dell’articolata sentenza è finalmente possibile comprendere appieno il significato della decisione dei giudici costituzionali.
Accogliendo in parte le questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Roma con un’ordinanza del 26 luglio 2017, l’art. 3, comma 1, del DLgs. citato è stato dichiarato illegittimo limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, che devono, quindi, essere considerate espunte dal testo della norma. Di conseguenza, da domani la misura dell’indennità riconosciuta ad un lavoratore assunto a tutele crescenti in caso di mancanza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento potrà essere stabilita discrezionalmente dal giudice in una misura compresa tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità (essendo questi i nuovi limiti oggi vigenti a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3, comma 1, del DL 87/2018).
Per la Corte, il criterio rigido di determinazione dell’indennità si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. in primo luogo sotto il profilo dell’eguaglianza, omologando situazioni tra loro diverse, senza consentire di valutare come il pregiudizio prodotto da un licenziamento illegittimo dipenda da una pluralità di fattori, di cui l’anzianità di servizio è solo uno dei tanti. I giudici delle leggi, sotto questo profilo, nel richiamare le disposizioni che regolano la stessa materia della quantificazione dell’indennità nell’art. 8 della L. 604/66 e nell’art. 18, comma 5, della L. 300/70, hanno avuto facilità ad indicare quali dovranno essere i parametri cui il giudice dovrà attenersi per quantificare il risarcimento tra il minimo ed il massimo. Si dovrà tenere conto, secondo la Corte, innanzitutto dell’anzianità di servizio, ma anche del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
La disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. anche sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza, perché, secondo la Corte, l’indennità stabilita in misura fissa sarebbe inidonea a garantire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa di un licenziamento ed un’adeguata forma di dissuasione per il datore di lavoro, affinché non proceda ad una illegittima risoluzione del rapporto di lavoro, soprattutto quando l’anzianità non è elevata.
Appare evidente come con questa seconda indicazione contenuta nella sentenza sia inevitabile attendersi che, nel quantificare l’indennità spettante al dipendente illegittimamente licenziato, il giudice sia normalmente portato a discostarsi in modo significativo dai limiti minimi previsti dalla norma, proprio per riconoscere un adeguato ristoro del pregiudizio del lavoratore.
Per le stesse ragioni, la Corte ha ritenuto poi che la disposizione censurata si ponesse anche in contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost., che attribuiscono rilievo costituzionale al lavoro e lo tutelano, nonché con gli artt. 76 e 117 Cost., questi ultimi, in relazione alle disposizioni di cui all’art. 24 della Carta sociale europea, in forza del quale deve essere garantito il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o ad un’altra adeguata riparazione.
La Corte ha, invece, respinto, tra le altre, la censura della norma sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza in quanto prevede una tutela ingiustificatamente deteriore per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 rispetto ai dipendenti della stessa azienda assunti in precedenza. Secondo i giudici costituzionali, il contratto a tutele crescenti è sicuramente meno favorevole rispetto alla disciplina prevista dall’art. 18 della L. 300/1970, ma tale minor tutela è giustificata dallo scopo perseguito dal legislatore di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di coloro che sono in cerca di occupazione.
Se i giudici delle leggi avessero accolto anche tale profilo di censura, il contratto a tutele crescenti sarebbe stato definitivamente espunto dal nostro ordinamento, ma c’è da chiedersi se dopo l’intervento della Corte abbia ancora un senso la coesistenza di due regimi che presentano ancora aspetti peculiari, ma le cui differenze si sono sicuramente di molto attenuate, o non valga piuttosto la pena di rivedere l’intera materia dei licenziamenti per dettare una disciplina unitaria.