La soglia a 100.000 euro con vincolo di non partecipazione ad associazioni professionali incentiverebbe la parcellizzazione delle attività professionali
L’intento più volte manifestato dal Governo in queste settimane è quello di estendere l’ambito di applicazione del regime forfetario dei “piccoli” lavoratori autonomi alle partite IVA con fatturato fino a 100.000 euro.
Introdotto dall’art. 1 comma 54 e ss. della L. 190/2014, questo regime consente alle partite IVA individuali, con fatturato non superiore a soglie massime differenziate a seconda del settore di attività (ad esempio, per le attività libero-professionali, che rappresentano la fattispecie di gran lunga più ricorrente tra i circa 935.000 attuali utilizzatori del regime, il limite di fatturato è attualmente fissato a 30.000 euro), di beneficiare:
– di una tassazione del 15% (5% per le nuove attività nei primi cinque anni) sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali applicata su un reddito di impresa o di lavoro autonomo determinato non già in base alla analitica contrapposizione tra ricavi o compensi e costi, bensì sul fatturato al netto di una percentuale predeterminata (che varia anch’essa a seconda del settore di attività) a titolo di deduzione forfetaria dei costi inerenti l’attività;
– di significative semplificazioni negli adempimenti fiscali e di tenuta della contabilità;
– della esclusione da IVA, con conseguente assenza dell’obbligo di addebitare l’imposta al cliente e del diritto di detrarsi l’IVA addebitata dai fornitori.
Per potersi avvalere del predetto regime, le partite IVA individuali, oltre a non superare le previste soglie di fatturato, devono anche:
– non essere soci di soggetti collettivi che imputano per trasparenza i redditi ai soci (società di persone, associazioni professionali e srl trasparenti per opzione);
– non essere titolari di redditi di lavoro dipendente e assimilati per oltre 30.000 euro, relativi a rapporti di lavoro in essere;
– avere una organizzazione (beni strumentali, collaboratori) minima.
In linea di principio, l’intendimento del Governo è senza dubbio positivo, perché dimostra una giusta attenzione al tema del prelievo fiscale sul lavoro autonomo, escluso nel recente passato sia dagli interventi che hanno riguardato solo il comparto del lavoro dipendente, sia da quelli che hanno riguardato solo il comparto della media e grande impresa.
Ciò non di meno, come sottolineato dal CNDCEC in occasione dell’audizione in Commissione Finanze del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle semplificazione sistema tributario e rapporto contribuenti-fisco, l’attuazione della riduzione del prelievo fiscale sulle piccole partite IVA con redditi medi e medio-alti mediante ampliamento del regime forfetario in questione appare foriera di rilevanti effetti distorsiviche meriterebbero da parte del legislatore una più approfondita riflessione (sugli altri aspetti evidenziati in audizione, di veda “Riduzione dell’IRPEF con pochi vantaggi per i singoli contribuenti” di oggi).
In primo luogo, ove venisse mantenuto il vincolo della non partecipazione a società o associazioni professionali, l’innalzamento fino a 100.000 euro della soglia di fatturato determinerebbe una spinta significativa alla parcellizzazione delle attività professionali: un vero e proprio incentivo alla disgregazione delle strutture collettive esistenti, in un contesto italiano in cui sarebbe semmai necessario introdurre incentivi significativi all’aggregazione.
In secondo luogo, ove venissero mantenuti vincoli stringenti di “organizzazione minima”, quanto a beni strumentali e collaboratori, l’innalzamento fino a 100.000 euro della soglia di fatturato determinerebbe una spinta altrettanto significativa al nanismo imprenditoriale e professionale e, aspetto non secondario, all’esplosione del sommerso nei relativi acquisti di beni e contratti di lavoro (per non sforare i limiti), ma anche più in generale su tutti i costi sostenuti dalle partite IVA beneficiarie del regime forfetario, in quanto queste ultime non sarebbero interessate a farsi documentare i costi dai propri fornitori, posto che la deduzione dei costi non sarebbe analitica bensì forfetaria in percentuale al fatturato e posto che, non potendosi detrarre l’IVA sugli acquisti, agirebbero come spesso fanno i consumatori privati che preferiscono mettersi d’accordo con il fornitore per evitare l’IVA.
In terzo luogo, l’ampliamento del regime di esclusione da IVA per autonomi con fatturato fino a 100.000 euro, anche laddove ottenesse le necessarie autorizzazioni a livello europeo (oggi esistenti solo per soggetti con fatturati non superiori a 65.000 euro), pare suscettibile di amplificare in modo significativo l’effetto distorsivo della concorrenza tra professionisti in regime forfetario e professionisti in regime ordinario che prestano servizi a consumatori finali, posto che i primi potranno non addebitare il 22% di IVA ai loro clienti, mentre i secondi dovranno continuare a farlo.
Infine, pare opportuno osservare che la tassazione sostitutiva, al 15% (o al 20%), raffrontata a quella del 35% circa che grava sui redditi tra 75.000 e 100.000 euro, determina un vero e proprio “scalone fiscale”, tale per cui, una volta raggiunti i 100.000 euro di fatturato è più conveniente non farlo aumentare ancora, se l’aumento non è tale da portarlo almeno oltre 125.000 euro.
Ecco perché l’apprezzabile intento del Governo di ridurre la pressione fiscale che grava sulle partite IVA con redditi medi e medio-alti andrebbe realizzata agendo direttamente sulla curva IRPEF, piuttosto che ampliando sic et simpliciter un regime forfetario che è nato più che altro come strumento di semplificazione degli adempimenti per soggetti con volumi d’affari minimi e redditi che, anche applicando le regole ordinarie, sconterebbero a consuntivo una tassazione sostanzialmente allineata o comunque molto vicina a quella sostitutiva.