Le nuove disposizioni rischiano di scoraggiare i contratti a termine che superano i dodici mesi

Di Luca NEGRINI

Il decreto contenente disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese, superato il vaglio della Ragioneria dello Stato, è pronto per essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Dal giorno successivo entreranno in vigore le nuove norme sui contratti a termine, che si applicheranno ai nuovi contratti e ai rinnovi e proroghe dei contratti in corso.

Senza entrare in questa sede nel merito della scelta politica di ridurre da 36 a 24 mesi il periodo complessivo in cui le parti possono essere legate da un rapporto di lavoro a termine, è evidente che la reintroduzione di un sistema di causali, che coesistono però con un contratto fino a 12 mesi per il quale non è necessaria l’indicazione delle esigenze che lo giustificano, rischia di creare confusione e di scoraggiare il ricorso al lavoro a tempo determinato per periodi superiori all’anno, senza che questo necessariamente porti ad una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro.

Il decreto, modificando il comma 1 dell’art. 19 del DLgs. 81/2015, ha innanzitutto stabilito che può essere concluso un contratto con una durata iniziale superiore ad un anno solo in caso di: esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Queste causali, che riprendono in modo pressoché testuale due delle tre ipotesi previste dall’art. 50 del progetto di legge di iniziativa popolare promosso dalla CGIL e presentato alle Camere come Carta dei Diritti Universali del Lavoro nella scorsa legislatura, difficilmente possono giustificare un rapporto a termine che ad origine abbia una durata compresa tra uno e due anni.

Sembrano eccezionali, infatti, i casi in cui sin dall’origine un’esigenza estranea all’ordinaria attività dell’azienda, pur avendo natura temporanea, sia superiore ad un anno, così come le ipotesi di sostituzione per un periodo che vada oltre l’anno. Ancora più difficile è sostenere che ricorre un incremento temporaneo e non programmabile dell’attività ordinaria, se tale incremento ha fin dall’inizio una proiezione per un periodo di tempo superiore ad un anno. Di conseguenza, per pochi contratti a termine sarà possibile prevedere una durata iniziale superiore a 12 mesi.

Le causali di cui si è detto sono inoltre necessarie per prorogare il termine inizialmente stabilito, qualora con tale proroga si superino i 12 mesi, nonché per rinnovare il contratto, cioè per sottoscrivere un nuovo contratto a termine con chi era già stato un dipendente a tempo determinato, nel rispetto degli intervalli previsti dal comma 2 dell’art. 21 del DLgs. 81/2015. Il decreto legge ha, infatti, introdotto un comma 01 all’art. 21, secondo il quale il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle esigenze di cui si è detto e può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi, ma successivamente solo in presenza delle medesime esigenze.
La previsione trova poi riscontro, sotto il profilo formale, nel nuovo testo dell’ultima parte del comma 4 dell’art. 19, in tema di contenuti dell’atto scritto di rinnovo o proroga. La causale che giustifica la proroga o il rinnovo è necessaria solo se si supera l’anno in caso di proroga, mentre se si conclude un nuovo contratto a termine l’obbligo vale anche se il cumulo dei due o più rapporti a tempo determinato non supera i 12 mesi.

Sono esclusi dall’obbligo di una causale i rinnovi e le proroghe dei contratti per attività stagionali, così come individuate dai contratti collettivi e dal DPR 1525/1963, per i quali non vale neppure il limite massimo di 24 mesi di durata complessiva dei rapporti a termine intercorsi tra lo stesso datore e lo stesso lavoratore, di cui al comma 2 dell’art. 19 del DLgs. 81/2015.

Inoltre il decreto legge, in relazione alla disposizione dell’art. 2, comma 28 della L. 92/2012, che prevede fin dal 2013 un onere contributivo addizionale dell’1,4% per i rapporti di lavoro non a tempo indeterminato, prevede un aumento dello 0,5% di tale onere per ogni rinnovo del contratto a tempo determinato.
È allora davvero difficile immaginare che qualche imprenditore voglia assumersi i rischi connessi ad un possibile contenzioso sulla legittimità della causale indicata per il rinnovo, la cui invalidità porterebbe alla conversione del rapporto a tempo indeterminato, nonché i maggiori oneri contributivi previsti per stipulare altri contratti a termine con chi è già stato un suo dipendente a tempo determinato.

Questo potrà portare, auspicabilmente, in qualche caso alla stabilizzazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma quando il datore non sarà pienamente certo delle qualità soggettive del lavoratore o dell’effettivo consolidamento della necessità di un posto di lavoro in più in organico, la scelta non potrà che essere quella di assumere un altro lavoratore.
Un rischio analogo vale anche per le proroghe, che tra l’altro sono state ridotte da cinque a quattro, quando si superino i 12 mesi, perché anche in questo caso se non si vuole correre il rischio di andare a discutere davanti ad un giudice della validità della causale della proroga la soluzione più semplice sarà quella di assumere a termine un altro lavoratore.