La Cassazione sposa la tesi della totale equiparazione tra bancarotta propria e bancarotta impropria o societaria

Si va sempre più consolidando l’orientamento giurisprudenziale per cui il reato di bancarotta fraudolenta societaria attuato tramite operazioni dolose, di cui all’art. 223comma 2 n. 2 del RD 267/1942, integra una “eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale”. Da ciò deriva che per la responsabilità degli amministratori è sufficiente la dimostrazione della consapevolezza e della volontàdella natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, unita all’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa; senza che debba essere ulteriormente provata l’effettiva volontà dell’evento fallimentare.
Tale principio viene nuovamente affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 18092depositata ieri.

L’operazione dolosa richiesta dalla norma veniva qui rintracciata in una doppia operazione negoziale che vedeva, da un lato, l’affitto di un ramo di azienda da una srl ad una spa, gestita “di fatto” dal presidente e dall’amministratore delegato della prima. Tale affitto veniva realizzato tramite una novazione contrattuale a condizioni di grande svantaggio per la srl, a causa dei canoni che venivano periziati con una sproporzione del 325% in aumento rispetto al valore di mercato del ramo d’azienda trasferito. Veniva, pertanto, contestata una volontà di trasferimento del debito dall’una all’altra società, ove la srl diveniva la bad company da avviare al fallimento, anche in ragione della carenza di mezzi finanziari idonei a sostenere i debiti contratti.

D’altra parte e contestualmente, la società per azioni iniziava la procedura di concordato preventivo potendo contare sul credito relativo ai canoni di affitto e, comunque, su due polizze assicurative – poi rivelatesi materialmente contraffatte – poste a garanzia del pagamento di tali canoni.

Sul punto, la Cassazione ricorda che, in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria dell’impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento o distruzione), ma da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito stabilito (cfr., tra le altre, Cass. n. 17408/2014).

Esse possono, perciò, consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell’impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa.
Per accertare tale “depauperamento” è necessario evidenziare un’indebita diminuzione dell’attivo, mentre per accertare gli abusi di gestione o l’infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo va effettuata una valutazione in concreto, a partire dai doveri statutari, dalla tipologia dell’ente e dalla situazione economica e patrimoniale in cui la condotta si compie.

Ai fini della definizione del caso in esame, i giudici ricordano anche che non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 c.p., né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto. Ne deriva che le operazioni che abbiano aggravato un dissesto già esistente, ma senza le quali il fallimento non si sarebbe prodotto (qualora le difficoltà in cui la società versava fossero state ancora reversibili), ben possono assumere rilievo penale (Cass. n. 40998/2014).

Viene, infine, dato atto di un dibattito in corso rispetto alla possibile applicabilità ai casi di bancarotta societaria della circostanza aggravante conseguente a un danno patrimoniale di rilevante gravità, come prevista dall’art. 219 del RD 267/1942.
Il dubbio insorge dal momento che tale ultima norma fa espresso riferimento solo alle condotte di bancarotta fraudolenta e di bancarotta semplice commesse da un imprenditore, ovvero al caso di ricorso abusivo al credito (rispettivamente artt. 216217 e 218 del medesimo decreto).

Per i giudici non v’è ragione di differenziare la disciplina sanzionatoria (possibile aumento della pena fino alla metà) a seconda che le condotte di bancarotta avvengano in un’impresa o in una società. Anche alla luce della lettura integrale delle motivazioni di una pronuncia delle Sezioni Unite sul punto (Cass. SS.UU. n. 21039/2011), le due situazioni vengono ritenute sostanzialmente equiparate, fatto che toglie rilievo a ogni discussione sul favor rei e che rende irragionevole la limitazione dell’operatività dell’aggravante.