Per la Cassazione il commercialista, nella relazione al concordato preventivo che attesta la veridicità dei dati, svolge un servizio di pubblica necessità
Il commercialista che nella relazione correlata a una domanda di concordato preventivo, ex art. 161 comma 3 del RD 267/1942, attesti falsamente la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano realizza una condotta avente rilevanza penale anche se posta in essere anteriormente all’entrata in vigore della fattispecie di falso in attestazioni e relazioni, di cui all’art. 236-bis del RD 267/1942; deve, infatti, ritenersi integrata la fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui all’art. 481 c.p.
A precisarlo è la Cassazione, nella sentenza n. 16759/2018.
Nel caso di specie, a un commercialista in possesso dei requisiti normativamente richiesti, che, nel novembre 2010, poneva in essere la condotta ricordata, si contestava la fattispecie di cui all’art. 481 c.p., ai sensi del quale, chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesti falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 51 a 516 euro (tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro). Ne conseguiva la condanna nel giudizio abbreviato. Il GUP, infatti, reputava innegabile come tale relazione, inserendosi nel procedimento giurisdizionale, sostituisse i poteri istruttori del Tribunale, assumendo non solo un contenuto valutativo, ma anche certificativo, dal quale discendeva uno specifico valore probatorio (assunto, quest’ultimo, messo in dubbio da una parte della dottrina).
Si riteneva, inoltre, che il commercialista, nell’adempiere ai compiti ricognitivi, ispettivi e surrogatori di cui sopra, veniva a svolgere un servizio di pubblica necessità (ex art. 359 n. 1 c.p.) in funzione di corretta informazione e tutela dei creditori. La decisione trovava conferma in appello.
Nel frattempo, peraltro, con l’art. 33 comma 1 lett. l) del DL 83/2012 convertito, veniva inserita la fattispecie di cui all’art. 236-bis del RD 267/1942, ai sensi del quale “il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, … espone informazioni false ovvero omettedi riferire informazioni rilevanti, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà”.
La fattispecie in questione, in base all’art. 33 comma 3 del DL 83/2012 convertito, presenta rilevanza per le condotte ivi disegnate poste in essere nei procedimenti di concordato preventivo introdotti dall’11 settembre 2012.
Ad ogni modo, l’imputato presentava ricorso per Cassazione eccependo, da un lato, come non gli si potesse ascrivere la qualifica di persona esercente un servizio di pubblica necessità e, comunque, come così facendo si realizzava un’applicazione retroattiva della nuova fattispecie; dall’altro, che, in ogni caso, la fattispecie di cui all’art. 481 c.p. doveva ritenersi assorbita in quella di cui all’art. 236 comma 1 del RD 267/1942 – per la quale era stato altresì condannato in concorso con l’amministratore – ai sensi del quale è punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, si attribuisca attività inesistenti.
La Cassazione rigetta il ricorso osservando come non possa dubitarsi del fatto che l’imputato abbia assunto la veste di cui all’art. 359 n. 1 c.p., trattandosi di privato esercente la professione di commercialista – il cui esercizio è per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato – che aveva prestato la propria opera nell’espletamento di un servizio di pubblica utilità a lui assegnato. Rispetto a ciò non rileva l’argomento secondo cui tale opzione ermeneutica comporterebbe l’applicazione retroattiva dell’art. 236-bis del RD 267/1942. L’introduzione di una specifica fattispecie incriminatrice, infatti, non comporta la precedente irrilevanza penale della condotta, tanto che il codice penale regola espressamente tale evenienza all’art. 2 comma 4.
Neppure è configurabile un concorso apparente di norme tra il reato di cui all’art. 236 del RD 267/1942 e quello di cui all’art. 481 c.p. La valutazione dei rapporti tra fattispecie deve essere condotta sulla base del principio di specialità (art. 15 c.p.), che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (cfr. Cass. SS.UU. n. 20664/2017). La comparazione astratta tra le fattispecie in questione – conclude la Suprema Corte – dimostrerebbe l’insussistenza di qualunque correlazione tra le norme, che sarebbero autonome.
Nella specie, peraltro, le condotte contestate erano anche materialmente distinte, dal momento che la responsabilità per concorso atteneva a una prima relazione allegata alla domanda di concordato privadell’attestazione di veridicità dei dati, mentre l’art. 481 c.p. era integrato da una seconda relazione attestante la veridicità degli stessi e presentata in seguito alla richiesta di integrazione del Tribunale.