Il professionista risponde di riciclaggio e non di concorso nell’autoriciclaggio
A seguito dell’introduzione del reato di autoriciclaggio con l’inserimento nel codice penale dell’art. 648-ter.1, si sono poste numerose questioni interpretative rispetto alla grande novità che questa previsione ha portato nel nostro ordinamento. Tra gli altri, è stato sollevato anche il tema del possibile concorso nel reato del soggetto che non abbia commesso il reato-presupposto e che, quindi, non possa essere qualificato di per sé come un “autoriciclatore”; tema che può coinvolgere, in particolare, professionisti e consulenti (si veda anche Cass. n. 42561/2017). La peculiarità del nuovo delitto consiste, infatti, proprio nella possibilità di addebitare la condotta di “ripulitura” del denaro al medesimo soggetto che abbia commesso il delitto non colposo di cui quel denaro è provento.
Con la sentenza n. 17235, depositata ieri, la Corte di Cassazione ritiene si possa operare la seguente distinzione: se il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto non colposo, vengono impiegati, sostituiti, trasferiti, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative dal medesimo soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza illecita, si applica l’art. 648-ter.1 c.p. Se, invece, le medesime condotte vengono poste in essere da altro soggetto, trovano applicazione, a seconda dei casi, i reati di ricettazione, riciclaggio o reimpiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p.).
Può, tuttavia, discutersi in ordine alla qualificazione giuridica della condotta di colui che non abbia commesso, né concorso a commettere il delitto non colposo presupposto dell’attività di riciclaggio (“extraneus”), nel caso in cui costui abbia comunque fornito un contributo causalmente rilevante alla condotta di autoriciclaggio. Parte della dottrina – tendenzialmente maggioritaria – ammette che questi possa essere responsabile di riciclaggio, ma non di concorso in autoriciclaggio; mentre altri ritengono che, costituendo l’autoriciclaggio un reato “proprio” (cioè, che può essere commesso solo da chi abbia già commesso il reato presupposto), sarebbe configurabile il coinvolgimento dell’extraneus secondo le regole generali del concorso di persone previste dagli artt. 110 e 117 c.p.
A parere dei giudici di legittimità, la premessa da cui l’interprete deve muovere per chiarire i termini della questione è che la nuova incriminazione è stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali gravanti pattiziamente sull’Italia, “essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare una lacuna riguardante l’irrilevanza penale di condotte poste in essere dal soggetto autore o concorrente rispetto ad un determinato delitto non colposo”. In tale prospettiva, la previsione di un trattamento sanzionatorio meno grave per il delitto di autoriciclaggio trova giustificazione nel minor disvalore che anima la condotta quando questa sia posta in essere dalla persona che avendo illecitamente ottenuto la disponibilità di determinati beni, voglia – altrettanto illecitamente – assicurarsene la fruibilità.
Pertanto, laddove un soggetto, che non abbia concorso nella realizzazione del reato-presupposto, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione delle condotte tipizzate nell’art. 648-ter.1 c.p., questi continuerà a rispondere del reato di riciclaggio e non del (meno grave) concorso nell’autoriciclaggio. Da ciò deriva che sarà possibile all’interno del medesimo procedimento la diversificazione dei titoli di reato in relazione a condotte apparentemente concorrenti.
In definitiva, la Cassazione ritiene che l’art. 648-ter.1. c.p. preveda e punisca unicamente quelle condotte che in precedenza non potevano integrare un reato.
Venendo alle conseguenze pratiche di tali enunciazioni, il procedimento in esame attiene alla posizione di una commercialista, partecipe di una complessa attività di reimmissione di denaro attraverso operazioni immobiliari, finanziarie e societarie, in cui costei si era anche adoperata per il rientro in Italia di valori, illecitamente accumulati da un suo cliente e amico. Nelle motivazioni della sentenza viene precisato che l’essersi avvalsi della normativa del c.d. scudo fiscale per fare rientrare in Italia ingenti somme “non rende priva di rilievo l’accertata provenienza delittuosa” delle stesse, se il tutto rientra in una attività finalizzata alla “ripulitura del reato” anche mediante la “schermatura” dei singoli passaggi.
Il cuore dell’imputazione per riciclaggio della professionista riguarda la consapevolezza della provenienza illecita delle somme utilizzate, stante i rapporti di amicizia tra i due soggetti, la conoscenza degli esiti di un processo per corruzione nei confronti del cliente, l’esperienza e la competenza della commercialista “come tale in grado di rendersi conto della reale finalità dell’operazione da lei stessa gestita”.