Tale decisione incide sulla riparazione e sul pericolo di reiterazione, giustificando l’esclusione di possibili misure interdittive

L’art. 63 del DLgs. 231/2001 disciplina il c.d. “patteggiamento” di una società o di un ente nell’ambito di un procedimento avviato a seguito di uno dei reati-presupposto previsti nel decreto stesso.
Tale rito alternativo, mutuato dal processo penale nei confronti delle persone fisiche (art. 444 c.p.p.), sta diventando piuttosto frequente nel caso di contestazioni della responsabilità a grandi società, anche al fine di evitare i danni reputazionali e l’alea connessi allo svolgimento del procedimento.

Le condizioni per l’ammissione al rito di applicazione della sanzione su richiesta delle parti ricorrono quando: per l’illecito amministrativo è prevista la sola sanzione pecuniaria; per l’imputato del reato presupposto il giudizio è stato definito o è definibile ex art. 444 c.p.p.; non è irrogabile in concreto una sanzione interdittiva definitiva.

Le sanzioni interdittive per gli enti sono previste dall’art. 9 comma 2 e sono rappresentate da: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

L’art. 13 del DLgs. 231/2001 dispone che tali sanzioni si possano applicare in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste, quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni: l’ente ha tratto dal reato un “profitto” di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale (ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative); ovvero in caso di reiterazione degli illeciti.

Ad esempio, per i reati societari richiamati dall’art. 25-ter del decreto non sono espressamente previste delle misure interdittive, con l’eccezione del reato di corruzione tra privati di cui all’art. 2635 c.c. (art. 25-tercomma 1 lett. s-bis).
Inoltre, anche laddove la sanzione sia applicabile, il legislatore ha individuato delle azioni correttive che possono essere poste in essere da parte dell’ente per evitare tali interdizioni. Si tratta – secondo quanto indicato dall’art. 17 del DLgs. 231/2001 – del risarcimento integrale del danno da parte dell’ente e dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero l’essersi comunque efficacemente operato in tal senso; dell’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; dell’aver messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.

Ricapitolando, quando venga presentata una richiesta di patteggiamento, il giudice dovrà compiere la verifica negativa dell’insussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. (quale ad esempio la sussistenza di una causa di non punibilità). Dovrà, poi, procedere alla corretta qualificazione del fatto come illecito amministrativo incluso tra i reati-presupposto di cui al DLgs. 231/2001 e alla valutazione della correttezza e congruità della sanzione concordata (tenendo conto anche dell’eventuale applicazione di circostanze attenuanti ex art. 12 comma 2 del DLgs. 231/2001).
Infine, il giudice dovrà rilevare che non ci siano le condizioni per l’applicazione di una sanzione interdittiva definitiva (art. 63 comma 3 del DLgs. 231/2001).

Il Tribunale di Roma, con una sentenza del 20 marzo 2018, ha applicato pedissequamente tali indicazioni in un caso in cui era stato contestato ad un ente la commissioni di alcune condotte corruttive da parte del proprio amministratore, rilevanti ai sensi dell’art. 25 del DLgs. 231/2001.

Oltre alle valutazioni sul fatto e sull’entità della sanzione di cui si è detto, il giudice ha verificato che era stata effettuata la restituzione integrale del prezzo e del profitto del reato; erano state rimborsate le spese legali e risarcito il danno non patrimoniale alla Pubblica Amministrazione (quale persona offesa dal reato di corruzione); erano state eliminate le carenze organizzative attraverso l’adozione di un modello di organizzazione gestione e controllo.

Su quest’ultimo aspetto vale la pena ricordare che il modello organizzativo può assumere un valore anche se adottato successivamente alla commissione del fatto illecito (post factum). Da un lato, l’adozione tardiva può incidere come circostanza attenuante, ai sensi dell’art. 12 comma 2 del DLgs. 231/2001. D’altra parte – per quanto qui interessa – la decisione di dotarsi di un adeguato modello di organizzazione gestione e controllo incide sulla “riparazione” delle conseguenze dannose del reato e sul pericolo di reiterazione, giustificando, ai sensi del citato art. 17 (nonché dell’art. 49 per quanto riguarda la fase cautelare), l’esclusione di possibili misure interdittive.