Per il Tribunale di Padova gli interventi posti in essere ben potrebbero essere ricondotti al mero affetto derivante dal vincolo di parentela

Il vincolo familiare rende più difficile, in capo al curatore fallimentare di una società di persone, fornire la prova di un rapporto occulto strumentale rispetto all’estensione del fallimento ex art. 147 comma 4 del RD 267/1942 (ai sensi del quale, “se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi”).

Esemplare rispetto a tale affermazione è il provvedimento del Tribunale di Padova del 12 febbraio scorso, attinente a un caso in cui il curatore del fallimento di una snc cercava di estendere il fallimento anche alla figlia del socio di riferimento, ritenendola socia occulta della società medesima in ragione dei seguenti elementi: la società era stata da essa finanziata tramite due bonifici recanti la dicitura “apporto socio” e un assegno finalizzato a soddisfare un creditore sociale; dalla società risultavano pagamenti in favore della figlia “finanziatrice”; erano stati emessi assegni a sua firma e per conto della società.
Rispetto a tale richiesta si opponeva, innanzitutto, l’inammissibilità della domanda per intervenuta decorrenza del termine annuale dalla cancellazione dal Registro delle imprese della società, di cui agli artt. 10 e 147 del RD 267/1942, ai fini dell’estensione della dichiarazione di fallimento; si contestava, inoltre, la ravvisabilità della figura del socio occulto.

A fronte di ciò, il Tribunale di Padova sottolinea, in via preventiva, come la figura del socio occulto non possa giovarsi della ricordata disciplina recante il limite del termine annuale. Questa, infatti, realizza un bilanciamento di valori tra il principio dell’affidamento dei terzi tutelato dall’iscrizione nel Registro delle imprese e quello della certezza delle situazioni giuridiche (che non è solo dell’imprenditore, ma anche dei terzi, attese le conseguenze derivanti dalla dichiarazione di fallimento) e della tutela dell’imprenditore.
Di conseguenza, non è applicabile al socio occulto, poiché questi, per sua scelta, non è iscritto nel Registro delle imprese, per cui non può pretendere l’osservanza del limite annuale per la sua dichiarazione di fallimento; del resto l’iniziativa volta a far dichiarare il fallimento è tesa a far emergere quanto si è voluto occultare nel proprio interesse, ossia il fatto di avere, nella sostanza e in concreto, assunto la qualifica di socio illimitatamente responsabile (cfr. Cass. nn. 22270/2017 e 15488/2013).

Quanto alla figura del socio occulto si osserva come, per provare l’esistenza di un simile rapporto con la società occorra dimostrare, sulla base di elementi indiziari, la c.d. affectio societatis (ovvero la volontà di essere soci).
Questo onere, tuttavia, ove si verta in tema di soggetti legati da vincoli di parentela, diviene particolarmente rigoroso, dovendo essere idoneo a superare il fatto che gli indizi raccolti ben potrebbero trovare giustificazione non tanto nell’affectio societatis, quanto nella, “diversa”, affectio familiaris, ovvero nel semplice prodigarsi in aiuto di un prossimo congiunto, a prescindere da qualsiasi volontà di partecipare, per tal via, alla di lui società (cfr. Cass. nn. 23/2007 e 11975/1997).

L’esistenza del rapporto sociale occulto, anche al fine dell’estensione della dichiarazione di fallimento, è stata, nel tempo, desunta dai seguenti indici rivelatori: pagamenti di debiti sociali; fideiussioni; avalli; rilascio di cambiali con ipoteca; redazione di lettere analoghe a quelle di patronage (cfr., tra le altre, Cass. nn. 3271/2007 e 2200/2003).
Ma a tali fini rileva anche l’entità degli interventi, nonché la loro continuità e sistematicità (da non intendersi, necessariamente, come costante frequenza temporale, quanto anche come intervento “qualitativo” nei momenti fondamentali della vita della società).

Tutto ciò premesso, il Tribunale, concentrandosi sul caso di specie, osserva come: i due bonifici, sebbene recanti l’espressa dicitura “apporto socio”, ben potevano trovare fondamento nell’affectio familiaris che induceva la figlia ad aiutare il padre; l’assegno tratto per tacitare le richieste di un creditore sociale non poteva essere qualificato come finanziamento, dal momento che lo stesso non era andato a buon fine, essendo stato protestato; i pagamenti effettuati dalla società non riguardavano solo la figlia che aveva posto in essere i bonifici, ma altresì ulteriori soggetti, anche societari, riconducibili alla famiglia (l’eterogeneità dei destinatari, quindi, non consentiva di ravvisare con relativa certezza una compartecipazione agli utili da parte della figlia); l’emissione di assegni a propria firma per conto della società avveniva sulla base di una delega per la movimentazione di uno dei conti della società.

Complessivamente, allora, secondo il Tribunale di Padova, il quadro probatorio in ordine alla configurabilità del socio occulto non poteva dirsi univoco e la richiesta del curatore veniva respinta.