Da valutare il rischio che l’accertamento di frodi fiscali porti al fallimento dell’impresa
La bancarotta fraudolenta societaria, o impropria, prevista dall’art. 223 del RD 267/42, include tra le condotte sanzionabili quella di aver cagionato “per effetto di operazioni dolose” il fallimento della società (comma 2 n. 2). Con tale norma, il legislatore ha sancito un’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 216 della stessa legge fallimentare – dedicato unicamente alle condotte fraudolente poste in essere dall’imprenditore fallito – a condotte ascrivibili agli organi di amministrazione e controllo degli enti costituiti in forma societaria.
La giurisprudenza si è soffermata più volte sulla corretta definizione di tali “operazioni dolose”, ritenendo generalmente che esse possano consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell’impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa (Cass. n. 12426/2014).
Il citato art. 223 è, dunque, volto a sanzionare quei comportamenti dolosi degli amministratori (di fatto o di diritto) che – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento (Cass. n. 533/2017).
È evidente come una simile formulazione della condotta possa coinvolgere numerose modalità di realizzazione, tra cui, primariamente, gli illeciti tributari. Nella prassi si sono spesso manifestate ipotesi di sovrapposizione con il reato di emissione di fatture nei confronti di società “cartiere”, nel quadro di quei sistemi criminosi che vengono qualificati come “frodi carosello”. Allo stesso modo, sono state ritenute tali la condotta di un amministratore che abbia omesso il versamento delle imposte dovute, per poi procedere alla distribuzione di utili (Cass. n. 49210/2017) o le condotte di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi (Cass. n. 633/2018).
Laddove, perciò, a seguito di tali illeciti fiscali si verifichi un dissesto per la società si può porre anche un tema di bancarotta fraudolenta.
Ciò è avvenuto nel caso affrontato dalla Cassazione nella sentenza n. 11956, depositata ieri. I fatti contestati, nel caso di specie, coinvolgevano gli amministratori di fatto e l’amministratore unico di una srl fallita, relativamente alla formazione di fatture false per il valore di oltre 6 milioni di euro, annotate nelle scritture contabili, al fine di abbattere l’imponibile e creare un credito IVA nelle relative dichiarazioni fiscali.
Particolarmente problematico si presenta, tuttavia, l’accertamento del nesso causale tra l’operato degli amministratori e il successivo fallimento della società.
Secondo la Cassazione, si tratta di una “eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale”; pertanto, l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa; non è, invece, necessaria la prova dalla rappresentazione e volontà dell’evento fallimentare (cfr. anche Cass. n. 17690/2010).
Sicché, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della propria condotta illecita. I giudici di legittimità fanno, così, riferimento alla consapevolezza (o quantomeno alla ragionevole previsione) che le operazioni poste in essere potessero portare a un’irreversibile crisi dell’impresa nel “prevedibile caso di accertamento dei reati” che erano stati posti in essere.
In tale prospettiva, il reato di bancarotta può sussistere anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere solo allo scopo di realizzare una frode fiscale, risolvendosi pur sempre quest’ultima in un profitto, certamente ingiustificato.
Tanto è vero che, nel caso in esame, già i giudici di merito avevano evidenziato che oggetto dei fatti contestati al ricorrente era la circostanza di avere determinato il fallimento della società per effetto di operazioni dolose costituite dal sistema fraudolento finalizzato all’evasione delle imposte, ricostruito oggettivamente e documentalmente tramite gli accertamenti fiscali.
La bancarotta contestata agli imputati trova, dunque, fondamento proprio nella diretta correlazione causale tra il meccanismo di frode fiscale (realizzato – come si è detto – attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la successiva loro annotazione nelle scritture contabili) e lo stato di decozione fallimentare della società amministrata, conseguente all’accertamento degli illeciti fiscali e alla loro contestazione.