Secondo la Corte di Giustizia, ciò è possibile se le perdite non sono utilizzate nei rispettivi Stati di residenza

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le cause presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea aventi ad oggetto la compatibilità con il diritto comunitario delle legislazioni degli Stati membri che impediscono di includere nel consolidato fiscale le controllate estere e le stabili organizzazioni all’estero.
Nei ricorsi viene, infatti, eccepita la violazione della libertà di stabilimento, in quanto consolidare un’entità residente nello stesso Stato membro della capogruppo comporta la possibilità di utilizzare le perdite di questa entità a riduzione dell’imponibile di gruppo, possibilità invece preclusa per le perdite delle entità estere; si tratterebbe di una restrizione contraria al diritto di stabilimento, essendo suscettibile di determinare un trattamento preferenziale per gli investimenti in controllate (o filiali) nello stesso Stato di residenza della capogruppo.

Le ultime cause, alcune delle quali non ancora giunte a sentenza, evidenziano un orientamento per cui questa restrizione alla libertà di stabilimento risulta legittima, in quanto preordinata a un’equa ripartizione del potere impositivo tra i due Stati, ma alla sola condizione che non si arrivi a situazioni per cui la perdita non può essere dedotta né nello Stato membro dove è localizzata la controllata (o la stabile organizzazione), né nello Stato membro della casa madre.

L’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia ha formalizzato questo principio nelle Conclusioni del 17 gennaio 2018 relative alla causa C-650/16 e, più di recente, nelle Conclusioni del 21 febbraio 2018 relative alla causa C-28/17. Nel primo caso, la casa madre non ha potuto portare a riduzione del proprio reddito imponibile le perdite fiscali della S.O. che non hanno potuto essere utilizzate nella determinazione del reddito della branch nello Stato di localizzazione, in quanto la branch stessa era stata chiusa e sussistevano ancora perdite fiscali residue; l’Avvocato generale ha ritenuto sussistente la violazione della libertà di stabilimento anche se la casa madre poteva compensare le perdite optando per il consolidato mondiale, in quanto è stato riconosciuto che quest’ultimo regime è caratterizzato da oneri notevolmente più gravosi in termini di adempimento e di durata.

Principi di analogo tenore si rinvengono nelle Conclusioni relative alla causa C-28/17, anch’esse riguardanti le stabili organizzazioni estere. L’interesse del documento risiede soprattutto nel fatto che vengono sviluppate – e, a quanto consta, risulta la prima volta sul tema – considerazioni in merito al rapporto tra le libertà fondamentali dell’Unione e la disciplina anti abuso, formalizzata nella Direttiva 2016/1164/UE (ATAD); si sostiene, in questo senso, che i principi comunitari devono portare alla deduzione della perdita, se non fruita nello Stato di residenza della branch, nello Stato di residenza della casa madre, ma non possono in alcun modo determinare fenomeni di doppia deduzione della perdita stessa.

Da evitare fenomeni di doppia deduzione

Nella sentenza del 22 febbraio 2018, relativa alle cause riunite C-398/16 e C-399/16, la Corte ha poi stabilito:
– che sono compatibili con la libertà di stabilimento le legislazioni che impediscono di consolidare controllate estere, impedendo quindi di dedurre le differenze di cambio sui valori delle partecipazioni;
– che, al contrario, sussistono profili di incompatibilità nei casi in cui la norma nazionale preveda l’indeducibilità degli interessi passivi sostenuti da una società residente nello Stato A per prestiti contratti con un’altra società del gruppo (residente nello Stato B) e finalizzati all’acquisizione di una partecipazione in un’altra società estera (residente nello Stato C).

Nel primo caso, l’assenza di profili di incompatibilità deriva dal fatto che si è in presenza di situazioni non comparabili (non sussistono, infatti, differenze di cambio per una partecipazione in una società residente nello stesso Stato membro della controllante, salvo che – per gli ordinamenti che lo permettono – il capitale sociale sia denominato in una valuta diversa da quella nazionale).

Nella particolare seconda situazione, invece, si è fatto leva sul fatto che l’obiettivo di contrasto all’elusioneche anima la norma nazionale (quello di evitare che fondi presi a prestito dal gruppo possano portare alla deduzione di interessi passivi nello Stato di residenza della capogruppo) non troverebbe applicazione se la controllata estera fosse ammessa al regime di consolidato fiscale con la capogruppo.
Si sarebbe, quindi, in presenza di una restrizione illegittima, in quanto verrebbero trattate in modo differente due situazioni comparabili: il rischio che il prestito sia unicamente diretto a creare un interesse passivo deducibile senza che vi sia una sostanza economica sottostante dell’operazione è, infatti, tale sia che controllante e controllata siano residenti in Stati diversi, sia che le due società siano residenti nel medesimo Stato.