Per la Cassazione ne risponde il professionista incaricato della pratica d’invio telematico dei verbali di assemblea alla Camera di commercio

Commette falsità in atti pubblici ed è perciò penalmente responsabile il privato che rilasci una falsa dichiarazione ai sensi delle norme sull’autocertificazione e sulle dichiarazioni sostitutive (artt. 46 e 47 del DPR 445/2000).
Secondo l’art. 76 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (DPR 445/2000), tali dichiarazioni sono infatti considerate come fatte a pubblico ufficiale; il che è sufficiente a sancirne la destinazione a essere trasfuse in atto pubblico e, dunque, a rendere applicabili le sanzioni previste nell’ambito della falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, ai sensi dell’art. 483 c.p.

Tale affermazione viene ribadita dalla Corte di Cassazione, nella sentenza n. 7857 depositata ieri, in un caso in cui l’amministratore di fatto di una srl, nonché professionista incaricato della pratica di invio telematico dei verbali di assemblea alla Camera di commercio, attestava falsamente la conformità all’originale di uno di tali verbali in cui si dava atto del mutamento della persona dell’amministratore.

La contestazione avanti al giudice penale si fondava sulla violazione della normativa in materia di dichiarazioni sostitutive per cui chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal DPR 445/2000 è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia.
Nel caso di specie la Corte d’appello aveva condannato tale soggetto facendo riferimento all’art. 483 c.p. dedicato, come sopra accennato, alle condotte di falsità ideologica del privato in atto pubblico; si tratta cioè dei casi – puniti con la reclusione fino a due anni – in cui un privato attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
L’interpretazione maggioritaria – anche di natura dottrinale – ritiene che la nozione di “atto pubblico” debba qui intendersi in senso più ampio rispetto a quello civilistico (art. 2699 c.c. ), ovvero comprensivo di tutti quei documenti che vengono redatti da pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni.

Ciò che, invece, viene contestato nel ricorso avanti alla Cassazione è proprio l’equiparazione della dichiarazione sostitutiva a un atto pubblico, sia perché non avvenuta davanti a pubblico ufficiale, sia perché non destinata a essere “trasfusa” in un atto pubblico, trattandosi – nel caso in questione – di un semplice certificato amministrativo.
I giudici di legittimità non condividono le argomentazioni del ricorrente.

Richiamando una giurisprudenza che trae origine da una pronuncia delle Sezioni Unite dell’inizio degli anni Duemila (Cass. SS.UU. n. 28/2000), la Cassazione precisa che il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è configurabile nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoriadell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (si veda, più di recente, Cass. n. 18279/2014).

Incontestabile la specifica funzione probatoria delle autodichiarazioni

Con riguardo alle dichiarazioni sostitutive di atto notorio e di certificazioni rilasciate ai sensi degli artt. 46 e 47 del DPR 445/2000, la natura pubblica dell’atto è stata desunta dalla sua naturale destinazione a provare la verità dei fatti in esso affermati, a sua volta ricavabile dalla funzione di comprovare stati, qualità personali e fatti.
A sostegno di tale interpretazione vi è anche la lettera della legge e, in particolare, l’affermazione dell’art. 76 comma 3 del DPR 445/2000 secondo cui tali dichiarazioni “sono considerate come fatte a pubblico ufficiale” e il tenore letterale dell’art. 2699 c.c., che definisce la nozione di atto pubblico in relazione al soggetto che lo emana secondo le previste formalità e al potere conferitogli di attribuire allo stesso “pubblica fede”.

In altre parole – secondo la Cassazione – è la stessa legge sulla documentazione amministrativa ad attribuire alle suddette autodichiarazioni la qualità di atti pubblici ed è “evidente ed incontestabile la specifica funzione probatoria” delle stesse.
Ne deriva, pertanto, l’illiceità penale, da inquadrare in una delle fattispecie astratte previste dal codice penale in tema di falsità in atti pubblici, nel caso in cui il privato rilasci una autodichiarazione falsa, anche ove questa sia una comunicazione telematica alla Camera di commercio.