Applicabile l’eccezione di inadempimento nel rapporto tra società e amministratore
L’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. è applicabile anche nel rapporto tra amministratore e società; la quale, ad esempio, può rifiutare il pagamento dei compensi residui all’amministratore che non abbia tempestivamente convocato l’assemblea o che non abbia presentato nei termini il progetto di bilancio.
L’importante precisazione è fornita dalla Corte d’Appello di Milano, nella sentenza n. 3375/2017, relativamente a un caso in cui agli ex amministratori di una spa che richiedevano il pagamento dei residui compensi pattuiti, la società eccepiva, ex art. 1460 c.c., taluni comportamenti omissivi degli stessi. Questi, in particolare, da un lato, non avevano tempestivamente convocato l’assemblea al fine di consentire ai soci di esprimersi rispetto a una denunzia al Collegio sindacale ex art. 2408 c.c. e sul rinnovo del CdA decaduto per dimissioni di uno dei suoi componenti e, dall’altro, non avevano assolto all’obbligo di predisposizione del progetto di bilancio nei termini dovuti. Il Tribunale accoglieva l’eccezione di inadempimento. Contro tale decisione, gli amministratori ricordavano come la Cassazione a Sezioni Unite n. 1545/2017 abbia stabilito che tra amministratori e società di capitali intercorra un rapporto di tipo societario. Così qualificato il rapporto, all’interno dello stesso non sarebbe più ammissibile la proposizione di un’eccezione ex art. 1460 c.c., propria dei rapporti a prestazioni corrispettive.
Secondo la Corte d’Appello, tale esito non è né scontato né condivisibile. Il rapporto societario, infatti, deve comunque essere collocato tra i rapporti che sono fonte di obbligazioni tra le parti, sia guardandosi alla costituzione e alla modificazione del rapporto societario, che avendo riguardo ai comportamenti degli organi amministrativi e di controllo. Se dal contratto di società l’amministratore acquisisce in via originaria i propri poteri, con l’accettazione della nomina egli assume gli obblighi di adempiere ai propri doveri derivanti dalla legge o dallo statuto, costituenti il contenuto legale o pattizio del rapporto di società.
Vale a dire che, seppure la fonte dell’obbligazione non è un contratto o un negozio di amministrazione, in ogni caso si configura, nell’instaurazione di tale rapporto, una relazione obbligatoria interna tra amministratore e società, che non può ritenersi annullata o appiattita dal rapporto di immedesimazione organica. E in tale contesto l’amministratore è tenuto al rispetto dei propri doveri in conformità allo statuto e alla legge. La società, di contro, salvo che sia diversamente pattuito, deve corrispondere il compenso per il ruolo ricoperto e l’attività prestata, che va correttamente remunerata. D’altra parte, il fatto che gli amministratori non possano autodeterminarsi il compenso evidenzia l’alterità della loro posizione rispetto a quella dell’assemblea, consentendo dunque di configurare obblighi reciproci all’interno del rapporto di società; ciò con esclusione di ogni automatismo nel riconoscimento del compenso, che lo renda indifferente alle possibili anomalie nell’adempimento degli obblighi, e con applicabilità dell’art. 1460 c.c., non escluso dall’esistenza di un “rapporto societario”.
Gli amministratori, peraltro, nell’atto di appello avevano provato anche a sostenere che l’eccezione di inadempimento trova la sua ragione d’essere nella tutela di un rapporto sinallagmatico “in corso”,trattandosi di un rimedio conservativo del contratto, di carattere sospensivo, che tende pertanto a salvaguardare l’adempimento del contratto stesso. Si tratterebbe di uno strumento di autotutela esercitabile solo nei contratti commutativi e non nei contratti associativi. Nel caso di specie, poi, l’eccezione era intervenuta quando il rapporto era già esaurito, per la cessazione dalla carica degli amministratori, e, dunque, con una prestazione che non sarebbe stata più possibile.
Secondo la decisione in commento, però, per quanto tali assunti si basino su argomenti radicati nelle ricostruzioni sistematiche dell’istituto, deve ritenersi ammissibile che, pur dopo la cessazione del rapporto, la parte che ha subito l’inadempimento possa opporre all’altra parte il fatto che la prestazione non sia stata resa secondo i canoni obbligatori a cui era tenuta, e ciò anche qualora non vi siano gli estremi per ottenere una tutela risarcitoria. La parte che subisce l’inadempimento – in particolare in caso di prestazioni non necessariamente coeve – preserva il proprio interesse quanto meno a non adempiere alla propria, e ciò indipendentemente da richieste o azioni risarcitorie. Tanto più in presenza di inadempimento al quale non può più porsi rimedio per la cessazione del rapporto.
A fronte di tutto ciò, nel caso di specie risultava “provato” che, nonostante la decadenza del CdA per le dimissioni di un amministratore e la denuncia effettuata dal socio (e amministratore dimissionario) ex art. 2408 c.c., si era tardato nella convocazione dell’assemblea per consentire ai soci di pronunciarsi su tali importanti questioni. Inoltre, non era stato presentato nei termini previsti il progetto di bilancio. Tali inadempimenti, concludono i Giudici d’appello, assumono una rilevanza tale da far ritenere conforme a buona fede, come richiesto dall’art. 1460 comma 2 c.c., rifiutare il pagamento del compenso ancora dovuto.