L’omessa impugnazione della cartella può essere fonte di responsabilità in presenza di missive
Paga la società che si è assunta il rischio derivante dal mancato sgravio di una cartella, a firma del dottore commercialista anche legale rappresentante della stessa, per l’importo della cartella esattoriale non impugnata e di ogni altro pregiudizio direttamente derivante dalla violazione dell’obbligazione. È quanto stabilito dalla Cassazione, nell’ordinanza n. 3429, depositata ieri.
Nel caso di specie, una società presentava atto di citazione, fra l’altro, per il risarcimento dei danni da “mala gestio” professionale nei confronti di una società (che sembra svolgere l’attività di elaborazione dati e simili), in quanto questa si era assunta i rischi di un eventuale mancato sgravio a fronte di un’istanza di autotutela, per la successiva omessa impugnazione di una cartella esattoriale emessa a suo carico ai fini del recupero di ritenute fiscali non versate, oltre accessori, conseguenti a un controllo automatizzato della dichiarazione modello 770.
Accolta la domanda in primo grado, la decisione del Tribunale veniva poi confermata anche dalla Corte d’Appello, chiamata su gravame della società convenuta in giudizio, fondando l’assunzione di “responsabilità” della società appellante sulla base di una lettera firmata dalla stessa, nella quale si era presa l’impegno di farsi carico proprio dell’importo della cartella esattoriale, qualora non fosse stata accolta l’istanza di annullamento in autotutela, presentata all’Amministrazione finanziaria.
Avverso la decisione ricorre quindi per Cassazione la società appellante, il cui ricorso viene però rigettato dai giudici di legittimità, con condanna anche alle spese processuali, che hanno confermato le argomentazioni sostenute dalla Corte d’Appello.
Secondo la ricorrente, richiamando per la missiva la natura di una ricognizione di debito, la presunzione del rapporto sotteso veniva superata dal fatto di non poter configurare un contratto d’opera professionale con una persona giuridica.
Inoltre, la ricorrente ha contestato la tardiva mutazione della domanda, prima qualificata in atto di citazione come da responsabilità professionale da perdita di chance per mancata presentazione del ricorso tributario, e, poi, nella comparsa conclusionale come responsabilità “contrattuale”.
Infine, la ricorrente ha rilevato, richiamando la normativa sulla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., l’errore della Corte d’Appello nell’aver liquidato in maniera equitativa il danno – con riferimento all’instaurazione del giudizio civile – per il tempo e il personale utilizzato per ovviare agli errori della società, senza essersi basata sull’allegazione e sulla prova di specifici fatti, che, invece, erano stati descritti solo genericamente.
Innanzitutto, la Cassazione rileva l’intrinseca contraddizione della censura con riferimento al fatto che la responsabilità professionale ha comunque natura contrattuale.
Inoltre, la Cassazione evidenzia che l’interpretazione seguita dalla Corte d’Appello, in ordine alla natura della missiva, non era quella di una ricognizione di debito, ma di un atto con il quale la società appellante si assumeva l’impegno stesso a farsi carico delle conseguenze dell’eventuale mancato sgravio della cartella, nell’ipotesi di mancato accoglimento della richiesta di pronuncia in autotutela.
Pertanto, è proprio da tale impegno, collocato nell’ambito di un rapporto contrattuale, che consegue non solo il pagamento dell’importo della cartella (così come testualmente fa riferimento la lettera), “bensì anche di ogni altra conseguenza di una responsabilità facente capo a un’obbligazione a carattere negoziale”.
Seguendo tale ragionamento, la Cassazione respinge anche il motivo di ricorso sulla liquidazione equitativa dell’ulteriore danno, oltre a quello relativo all’importo della cartella non impugnata, che non rientra nell’ambito della responsabilità processuale aggravata – così come richiamata dai ricorrenti – ma discende dalla violazione dell’obbligazione assunta con la missiva più volte citata.
Si tratta, più precisamente, delle somme che la Corte d’Appello ha ritenuto fondate – così come sottolineato dalla Cassazione – “sulla perdita di tempo e di energie lavorative conseguenti al protratto inadempimento” dell’obbligazione stessa, che hanno costretto la società istante a instaurare un contenzioso giudiziale e liquidate solo in via equitativa per la loro difficile quantificazione.