Il diritto vivente equipara le due realtà ai fini dell’applicazione dell’art. 147 comma 5 del RD 267/42

Di Maurizio MEOLI

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 comma 5 del RD 267/42, sollevata in riferimento agli artt. 3 comma 1 e 24 comma 1 Cost., dal momento che il riferimento al solo imprenditore individuale è già esteso dal diritto vivente anche alle società di capitali. A stabilirlo è la Corte Costituzionale nella sentenza n. 255/2017.

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Vibo Valentia (con l’ordinanza del 31 marzo 2015) nel contesto di una procedura fallimentare, relativa ad una srl, nel corso della quale il curatore aveva chiesto l’estensione del fallimento nei confronti di altra srl e di una impresa individuale sul presupposto dell’esistenza di una società di fatto tra questi soggetti. A tale soluzione, tuttavia, si opponeva il testo dell’articolo ricordato, ai sensi del quale – conformemente a quanto disposto dal comma precedente in ordine alla estendibilità del fallimento di società a quello dei soci illimitatamente responsabili della stessa – si procede anche qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa sia riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile.

In pratica, si ricollega la possibilità del fallimento in estensione di altro soggetto (persona fisica o giuridica) che risulti socio (di fatto) dell’originario fallito alla dichiarazione di fallimento, esclusivamente, di un “imprenditore individuale”. In tal modo, però, si realizzerebbe un contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 24 comma 1 Cost., dal momento che, da un lato, vi sarebbe una irragionevole disparità di trattamento tra impresa individuale e società di capitali agli effetti dell’estendibilità del rispettivo fallimento, e, dall’altro, si violerebbe il diritto di difesa dei creditori di società di capitali, che, diversamente da quelli di imprenditori individuali, sarebbero privi di tutela ai fini della estendibilità del fallimento della società debitrice ad altri soci di fatto della stessa.

Analoga questione è stata sollevata anche da altri giudici di merito (Trib. Bari 20 novembre 2013, Trib. Parma 13 marzo 2014 e Trib. Catania 27 novembre 2014), ma dichiarata “inammissibile” dal giudice delle leggi per carenze motivazionali correlate alla omessa valutazione degli adempimenti previsti dall’art. 2361 comma 2 c.c. in ordine alla partecipabilità di società di capitale a società di fatto (delibera dell’assemblea e informazione in Nota integrativa), nonché alla assenza di una previa verifica circa la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente adeguata della norma censurata (cfr. Corte Cost. nn. 276/2014 e 15/2016).

Il Tribunale di Vibo Valentia, invece, si sofferma su entrambi tali profili. Quanto al primo, ritenendo che, anche nella srl, il mancato rispetto dei requisiti formali di cui all’art. 2361 comma 2 c.c. non sia ostativo ai fini della partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto. Quanto al secondo, optando per l’impossibilità di una lettura costituzionalmente orientata, perché una interpretazione analogica o estensiva sarebbe preclusa dalla specialità della norma rispetto all’art. 1 del RD 267/42.

La questione, di conseguenza, diviene ammissibile e da esaminare nella sua fondatezza o meno. E, con riguardo a tale profilo, la Consulta osserva come si sia già affermata nel diritto vivente proprio quella interpretazione ritenuta preclusa dal Tribunale di Vibo Valentia. La Cassazione n. 1095/2016, infatti, ha stabilito che la partecipazione di una srl in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell’art. 2361 comma 2 c.c., dettato in tema di spa, e costituisce un atto gestorio proprio dell’organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale – la previa decisione autorizzativa dei soci ex art. 2479 comma 2 n. 5 c.c.

L’efficace assunzione della partecipazione determina tutte le implicazioni conseguenti, compreso il possibile fallimento della società di fatto cui la srl abbia partecipato, e della srl stessa. Nel medesimo senso si è, poi, espressa la Cassazione n. 10507/2016, che ha anche precisato come l’art. 147 comma 5 del RD 267/42 trovi applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è in realtà riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di una interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (c.d. supersocietà di fatto). Ed una interpretazione che conduca all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso di fallimento dell’imprenditore individuale, in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (cfr. anche Cass. n. 12120/2016).

La disposizione denunciata, quindi, già vive e si riflette nell’interpretazione, costituzionalmente adeguata, che equipara la società di capitali all’impresa individuale ai fini della estendibilità del fallimento agli eventuali rispettivi soci di fatto. E, di conseguenza, la questione sollevata è dichiarata non fondata.