La Consulta conferma la posizione dei giudici di legittimità, ribadendo che non si possono interpretare estensivamente disposizioni fiscali di favore
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 88, comma 4, del TUIR, per cui non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società dai propri soci, laddove la norma non contempla alla stessa stregua di questi ultimi anche società appartenenti al medesimo gruppo che non siano, però, socie della beneficiaria dei versamenti. È quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 264 depositata ieri.
La formulazione testuale della norma, in effetti, escluderebbe la sua applicabilità ai versamenti effettuati da soggetti non soci, quali sono formalmente le società appartenenti ad uno stesso gruppo, ma non socie di quella destinataria dei versamenti in denaro.
Con la sentenza n. 54/2016, affrontando il caso di una società italiana che, per la ricopertura delle perdite conseguite, aveva ricevuto delle somme di denaro da parte di altre società estere dello stesso gruppo, ma non sue socie, la C.T. Reg. di Venezia aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma che, appunto, non si rendeva applicabile anche ai finanziamenti ricevuti da altre società, non socie, del gruppo (i cui importi, quindi, erano stati recuperati a tassazione dal Fisco alla stregua di sopravvenienze attive tassabili).
Al riguardo, i giudici regionali avevano osservato che un’interpretazione estensiva della disposizione segnerebbe il riconoscimento che il raggruppamento di varie società intorno ad una che le controlla ben può essere assimilato a quello della pluralità di soggetti che partecipano ad un’unica società: infatti, nell’uno e nell’altro caso le contribuzioni in denaro avvengono comunque per la cointeressenza del soggetto finanziatore alle vicende della società destinataria, essendo, quindi, comunque prive del carattere di liberalità e svolgendo la diversa funzione di fornire e mantenere le risorse patrimoniali nel segno della continuità dell’attività sociale.
Sotto il profilo civilistico, del resto, la disciplina del finanziamento soci di cui all’art. 2467 codice civile viene estesa ex art. 2497 ai finanziamenti effettuati a favore delle società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti; inoltre, l’unitarietà dell’impresa del gruppo viene riconosciuta anche in numerose altre disposizioni in tema di redazione del bilancio consolidato, di informazione e comunicazione dei bilanci, di circolazione endo-gruppo delle partecipazioni azionarie, di marchi di impresa, di disciplina della concorrenza, ecc.
Contro tale interpretazione estensiva, però, si era già pronunciata la Cassazione, con la sentenza n. 22917/2014, con cui era stato deciso che la norma de qua deve essere attualmente intesa quale disposizione che non si presta affatto ad estensioni, in quanto di natura eccezionale e pertanto di stretta interpretazione, e questo stante la diversa soggettività che caratterizza le distinte società appartenenti ad un medesimo gruppo.
La Consulta, con la sentenza di ieri, ha di fatto confermato il decisum di legittimità, ribadendo, innanzitutto, che non si possono rendere interpretazioni estensive di disposizioni fiscali di favore ed, inoltre, che la richiesta interpretazione estensiva determinerebbe un’ingiustificata asimmetria fiscale.
I versamenti a fondo perduto o in conto capitale effettuati dai soci, infatti, hanno la funzione di dotare la società di mezzi patrimoniali integrativi e sono assistiti da una causa simile a quella del “capitale di rischio” propria dei conferimenti e, pertanto, sotto il profilo fiscale, questa assimilazione comporta che, all’aumento del patrimonio netto della società e alla sua irrilevanza reddituale ex art. 88, comma 4, si contrappongano simmetricamente, per il socio, l’aumento del costo di partecipazione, corrispondente al costo dei conferimenti, e la non deducibilità dal reddito dell’importo versato ex artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, del TUIR: la patrimonializzazione della società è dunque fiscalmente agevolata in quanto il legislatore equipara in questo caso, ai fini dell’imposta sui redditi, gli interessi sottesi ai versamenti dei soci a quelli sottostanti ai conferimenti, riconducendoli entrambi al rapporto sociale.
La descritta ragione dell’agevolazione non può essere estesa al caso dei versamenti effettuati da società dello stesso gruppo, atteso che, se è vero che questi apporti possono essere diretti a soddisfare un interesse economico della società disponente, e precisamente a consentirle di conseguire i vantaggi complessivi derivanti dall’appartenenza al gruppo, tale interesse mediato e indiretto non è assimilabile a quello, immediato e diretto, perseguito dal socio con il versamento alla società di appartenenza: il versamento delle società consorelle, infatti, potendo trovare ragione, non nel rapporto sociale, ma nell’appartenenza al gruppo, non realizza finalità equiparabili a quelle proprie del conferimento del socio nella società beneficiaria, che, come visto, giustificano l’esenzione fiscale.
Inoltre, all’irrilevanza, sotto il profilo reddituale della ricevente, dei versamenti effettuati a suo favore non corrisponderebbe più, sul versante della società erogante, l’indeducibilità delle somme dal suo reddito, di cui esse continuerebbero a costituire invece componenti negativi soggetti a deduzione, con la conseguenza che l’ampliamento dell’esenzione fiscale rischierebbe di generare un “salto di imposta”.
La diversità di queste situazione – secondo la Consulta – esclude, quindi, l’irragionevolezza del loro diverso trattamento giuridico e non impone, conseguentemente, l’interpretazione estensiva della norma auspicata dai giudici regionali.