Nell’applicazione della misura non si può prescindere da un rigoroso raffronto tra acquisizioni patrimoniali e redditi dichiarati
L’applicazione della misura di prevenzione della confisca deve fondarsi su un’analitica e rigorosa comparazione, per periodi specifici, tra acquisizioni patrimoniali del soggetto pericoloso, da un lato, e redditi dichiarati e attività economiche svolte, dall’altro.
Questo il principio di diritto contenuto nella sentenza n. 54882 depositata ieri dalla Cassazione.
Nel caso di specie, dopo un primo passaggio avanti la Corte di legittimità, che aveva annullato un precedente decreto di confisca, il giudice del rinvio aveva disposto nei confronti del ricorrente la misura di prevenzione patrimoniale della confisca di beni immobili, disponibilità bancarie, postali, titoli di credito, nonché qualsiasi altra forma di investimento mobiliare, quote di partecipazione societaria, valori mobiliari. Il precedente annullamento non aveva riguardato, tuttavia, l’individuazione del ricorrente quale soggetto “pericoloso”, in quanto dedito a praticare l’usura per un lungo periodo di tempo tale da giustificare l’adozione nei suoi confronti della confisca di prevenzione.
Si tratta del provvedimento ablatorio previsto all’art. 24 del DLgs. 159/2011 (c.d. Codice antimafia), ove si prevede (comma 1) che il tribunale disponga la confisca dei beni sequestrati di cui la persona – nei cui confronti è instaurato il procedimento per specifici reati di particolare gravità – non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.
Va rilevato, per completezza, che la recente riforma delle disposizioni antimafia (L. n. 161/2017) ha modificato la norma con l’espressa precisazione – in linea con la precedente giurisprudenza (Cass. n. 4908/2016) – che, in ogni caso, il proposto per la misura non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
Il tema principale su cui si era soffermata la prima sentenza di annullamento era la motivazione eccessivamente sintetica del decreto impugnato, fondata su asserzioni apodittiche, non sostenute sul piano giustificativo da alcun conteggio o, comunque, da una disamina analitica della situazione patrimoniale del soggetto sottoposto alla misura.
La Corte prescriveva, pertanto, al giudice di rinvio – quale rilevante principio di diritto – un rigoroso accertamento circa il reddito dichiarato e le attività economiche, non già con riferimento al momento dell’applicazione della misura e al patrimonio posseduto, bensì riguardo ai periodi dei singoli acquisti e con la comparazione del loro valore e delle disponibilità lecite del soggetto.
Tuttavia, il vizio di motivazione rilevato nel primo provvedimento di confisca si rinnovava in sede di giudizio di rinvio e la Suprema Corte non ha mancato di rilevarlo nuovamente. La sentenza ribadisce, infatti, che in sede di applicazione della confisca di prevenzione non si può prescindere da un rigoroso raffronto tra acquisizioni patrimoniali, da un lato, e redditi dichiarati e attività economiche svolte, dall’altro. È quindi necessario accertare la disponibilità finanziaria netta del soggetto, anno per anno, quale esito differenziale tra redditi lordi e corrispettivi da cessioni di beni rispetto alle spese di mantenimento e agli altri oneri documentati, dall’altro.
Il principio era già presente nella giurisprudenza di legittimità, che ha anche affermato (Cass. n. 14047/2016) che il giudizio di inadeguatezza delle entrate conseguite dal nucleo familiare rispetto al valore degli acquisti effettuati nel periodo preso in considerazione non può fondarsi sulle tabelle elaborate dall’ISTAT per determinare la spesa media familiare e, quindi, la capacità di risparmio delle famiglie. Esse sono, infatti, meramente indicative e vanno lette alla luce degli ulteriori dati accertati in sede di indagine, in considerazione della gran varietà di condizioni sociali e ambientali riscontrabili sul territorio nazionale, nonché dei differenti stili di vita dei singoli e delle famiglie.
Si aggiunga poi la necessità di considerare a tali fini – secondo la prescrizione del citato art. 24 comma 1 DLgs n. 159/2011 – il reinvestimento di quanto ricavato dalla dismissione di un cespite o di un valore acquisito illegalmente.
In altre parole, nel procedimento di prevenzione, dalle entrate lecite va escluso sia quanto ricavato dalla cessione di beni di provenienza illecita e poi utilizzato per l’acquisizione di ulteriori beni, sia quanto proveniente da beni acquistati in periodi di sproporzione patrimoniale, accertata secondo gli anzidetti criteri, pure se inseriti in dichiarazioni fiscali o portati da atti pubblici o scritture private.
Resta invece estraneo alla sentenza – per il già definitivo accertamento sulla pericolosità del ricorrente – il delicato tema conseguente alla sentenza della Grande Chambre della Corte Edu del 23 febbraio 2017, con cui la giurisprudenza europea ha assestato un duro colpo alla disciplina delle misure di prevenzione personali, anch’esse fondate, come le patrimoniali, sulle fattispecie di pericolosità “generica” di cui all’art. 1del citato DLgs n. 159/2011, dichiarando tale disciplina incompatibile, in particolare, con la libertà di circolazione, riconosciuta dall’art. 2 Prot. 4 della CEDU.