Condizione risolutiva della cessione è il fruttuoso esercizio dell’azione per far valere l’inefficacia

Di Maurizio MEOLI

Come già evidenziato su Eutekne.info (si veda Il socio amministratore vota la sua revoca del 6 ottobre 2017), il Tribunale di Milano, in una sentenza del 20 ottobre 2016, si sofferma anche su profili attinenti alle frequentissime clausole statutarie di prelazione.
Al riguardo, si precisa, in primo luogo, come, l’offerente, in assenza di indicazioni espresse nella clausola, non possa condizionare la vendita di quote o azioni all’acquisto, da parte degli altri soci, di quote o azioni di altra società. Ciò renderebbe eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto di prelazione e consentirebbe al socio offerente o di eludere l’altrui esercizio del diritto di prelazione, inserendo condizioni non gradite, o di coartarne la volontà, costringendo, per raggiungere lo scopo insito nella prelazione, all’acquisto di altri beni ai quali si potrebbe essere del tutto disinteressati.
Di conseguenza, le offerte ai soci (c.d. “denuntiationes”) così strutturate sono invalide; a prescindere dall’adesione di taluni di essi, accaparrandosi anche la parte riservata agli altri consociati.

L’atto di vendita di partecipazioni societarie in violazione del diritto di prelazione statutariamente previsto, realizzando un inadempimento ad una norma contrattuale, e non una violazione di legge, non comporta l’annullabilità e, tanto meno, la nullità dell’atto, ma solo la sua inefficacia nei confronti della società e degli altri soci, con conseguente inopponibilità dell’acquisto nei confronti dei medesimi e, dunque, con incapacità dell’acquisto a fungere da titolo per l’esercizio di alcun diritto sociale (cfr. Cass. n. 24559/2015).

Non è possibile, inoltre, pensare che esista un automatico effetto a cascata (o a catena) di tale inefficacia sulle delibere approvate con il voto determinante del titolare delle quote inefficacemente acquisite. Posto che tale fattispecie è da collocare nella categoria della violazione statutaria (e non già della violazione di legge), deve comunque qualificarsi in termini di vizio di annullabilità della deliberazione, da impugnare, quindi, a pena di decadenza, entro 90 giorni dalla trascrizione nel libro delle decisioni dei soci (ex art. 2479-ter comma 1 c.c.), altrimenti restando valida ed efficace.
L’inefficacia in questione, nella specie, non incideva (automaticamente ed immediatamente) sulla successiva delibera di aumento di capitale, occorrendo un’impugnazione. Discorso diverso vale, invece, con riguardo alla fase di esecuzione dell’aumento, per la parte relativa all’offerta in opzione ai soci delle quote relative all’aumento. Si deve in primo luogo considerare che tale fase è autonoma rispetto alla delibera di aumento. Inoltre, gli amministratori che la eseguono sono vincolati alla legge ed allo statuto, sicché devono offrire le quote ai soci in proporzione alle percentuali di capitale di cui gli stessi siano “legittimamente titolari”. Di conseguenza, se un acquisto è inefficace nei confronti della società e degli altri soci, esso non può essere considerato nel computo della percentuale del capitale che dà diritto a ricevere l’offerta di acquisto; e, per quella parte, l’offerta non va indirizzata all’acquirente, ma a chi ha ceduto inefficacemente le quote sociali.

A fronte di tutto ciò, il Tribunale di Milano si sofferma sugli esiti ultimi dell’inefficace trasferimento delle quote di partecipazione in violazione di una clausola di prelazione nella piena consapevolezza di cedente e cessionario. Si osserva come, data la peculiarità del bene (quota di società di capitali), l’inefficacia della relativa cessione ne comporta un completo svuotamento economico e giuridico. Ed, inoltre, in esito alla cancellazione della cessione dal Registro delle imprese (per la quale sarebbe la società a doversi attivare) il cedente tornerebbe ad esercitare i diritti sociali mentre il cessionario resterebbe “proprietario”, ma di una partecipazione svuotata di contenuto.

Gli effetti negativi della situazione – impossibilità di esercizio dei diritti sociali da parte del proprietario della partecipazione – si manifesterebbero anche nei confronti degli altri soci e della società. Questi, infatti, si troverebbero di fronte a soci tornati a essere tali per effetto della declaratoria di inefficacia della cessione, ma, in quanto non proprietari della stessa, sottratti al rischio di impresa e, quindi, privi di interesse nei confronti della società; così realizzandosi una situazione non dissimile dall’assoluta indifferenza alle perdite sociali (nel caso in esame sopravvenuta) che determina la nullità del “patto leonino” di cui all’art. 2265 c.c.

Per tutte queste ragioni si ritiene preferibile la soluzione secondo la quale la cessione di una partecipazione sociale in violazione di una clausola di prelazione, quando la violazione sia conosciuta da cedente e cessionario, debba reputarsi implicitamente sottoposta alla “condizione risolutiva” dell’esercizio (fruttuoso) dell’azione per declaratoria di inefficacia della cessione stessa (o dell’esercizio fruttuoso di un’eccezione stragiudiziale di inefficacia che sia accolta dalla società che provveda a far cancellare la cessione dal Registro delle imprese).

Nella specie, quindi, accertata l’inefficacia della cessione – condizione risolutiva della stessa – si ordinava la restituzione del prezzo pagato previo (trattandosi di contratto a prestazione corrispettive) ritrasferimento delle quote.