L’impatto negativo calcolato dall’AIDC supera il gettito di due miliardi che il Governo aveva presunto di ottenere con il nuovo adempimento
La comunicazione all’Agenzia delle Entrate dei dati delle fatture emesse e ricevute nel primo semestre 2017 impatterà sul sistema impresa per un totale di circa 2,2 miliardi di euro, ovvero circa 200 milioni in più dell’incasso (2 miliardi) che il Governo aveva presunto di ottenere varando questo nuovo adempimento.
Lo rileva l’Associazione italiani dottori commercialisti ed esperti contabili che, attraverso il proprio centro studi, ha stimato il dato mettendo in relazione il tempo necessario per adempiere al nuovo obbligo comunicativo con il numero di soggettichiamati all’adempimento, retribuiti al costo medio di un impiegato amministrativo come indicato dal Ministero del Lavoro.
Un dato, peraltro, che la stessa AIDC definisce “sottostimato”, considerati i molteplici blocchi del portale “Fatture e corrispettivi”, che hanno indotto l’Amministrazione a prorogare, per tre volte nel giro di pochi giorni, il termine ultimo per l’invio dei dati (si veda “Al 16 ottobre la comunicazione dati fatture” del 5 ottobre).
In sostanza, scrive il sindacato di categoria in un comunicato stampa diffuso ieri, “l’Amministrazione finanziaria chiama gli imprenditori, e per essi i commercialisti, a sempre nuovi e più gravosi adempimenti senza in alcun modo tener conto del contributo lavorativo di questi, datane per scontata la gratuità. Stessa cosa nei confronti di tutte le categorie interessate dalla comunicazione dei dati del cosiddetto sistema Tessera sanitaria (operatori della sanità e altri) e, di nuovo, per essi la categoria dei commercialisti”.
Insomma, sottolinea Andrea Ferrari, Presidente dell’AIDC, “si sono scaricati sugli imprenditori e sui professionisti adempimenti e oneri ulteriori rispetto a imposte e tributi, generati proprio dal tempo necessario per assolvere gli obblighi tributari, che hanno un impatto negativo sull’economia ben superiore all’effetto immediato dell’introduzione dell’imposta e che si sostanziano in una sottrazione di ore/uomo al sistema produttivo per destinarle al sistema burocratico”.
Un concetto ripetuto spesso dai rappresentanti di categoria e che riaffiora in questi giorni, alla luce della “surreale” vicenda spesometro.
Peraltro, a “mortificare” ulteriormente i professionisti è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato che ha sdoganato la gratuità delle prestazioni professionali nelle gare d’appalto pubbliche.
Tale pronuncia (n. 4614/2017) ha ribaltato una sentenza del TAR della Calabria e avallato la scelta del Comune di Catanzaro, che aveva varato un bando di gara nel quale non era previsto un compenso per il professionista, ma solo un rimborso spese. Una decisione che non ha mancato di creare polemiche, proprio nel periodo in cui l’equo compenso per i professionisti sembra essere rientrato nell’agenda politica, grazie a diversi disegni di legge presentati sul tema.
“La presunzione che il lavoro professionale sia privo di valore – commenta ancora Ferrari – è insita in numerosi atti della Pubblica Amministrazione nei confronti dei professionisti, in particolare, e degli imprenditori, in generale”. La pronuncia del Consiglio di Stato, dunque, “costituisce solo un casus belli in una vicenda che per la nostra e per altre categorie ha ormai radici profonde”.
Tale consapevolezza, però, non rende più accettabile la sentenza: “Prima ancora del messaggio mortificante e distruttivo – conclude Ferrari – che la sentenza citata ha nei confronti di quanti, in particolare i giovani, investono il loro tempo in istruzione e formazione professionale, emerge una miope visione dello Stato che, in una fuorviante prospettiva di risparmio apparente, lede in realtà la parte migliore del Paese, spogliando i giovani dei propri sogni, i professionisti della propria dignità, il Paese di risorse monetarie ed economiche indispensabili”.