I sindaci concorrono solo se si prova l’effettiva conoscenza del falso

Di Maurizio MEOLI

L’imponente sentenza n. 1070 del Tribunale di Milano, depositata lo scorso 22 aprile, fornisce interessanti chiarimenti in ordine alla fattispecie di false comunicazioni sociali, ex art. 2621 c.c.

Si osserva, in primo luogo, come il principio di rappresentazione “veritiera” della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società – richiamato dall’art. 2423 c.c. – non postuli l’esistenza di una verità oggettiva del bilancio; questa caratteristica, infatti, non è ipotizzabile per un documento costituito non soltanto da rilevazioni obiettive di quantità, esattamente misurabili (come le disponibilità di cassa), ma anche da stime e dati congetturali.

Da questo punto di vista, il bilancio non può che tendere a una verità “relativa” o “convenzionale”, nella misura in cui le grandezze rappresentate derivano da stime e valutazioni effettuate sulla base di criteri (tecnici e legali) e metodi valutativi prescritti dalla normativa o dalle migliori prassi del settore generalmente accettate.

Nel processo di accertamento del grado di veridicità del bilancio, peraltro, rileva anche l’ulteriore principio della “correttezza”; ragion per cui l’esame del grado di accuratezza di ciascuna voce implica un’analisi delle modalità con cui gli amministratori hanno esercitato l’innegabile margine di discrezionalità tecnica attribuito dalla legge per la redazione del progetto di bilancio, da valutare sotto il profilo della correttezza tecnica, della coerenza e della razionalità.

All’esito delle suddette analisi, poi, la rilevanza penale della condotta, sempre sotto il profilo oggettivo, presuppone la ricorrenza di un ulteriore fondamentale requisito. Infatti, dal momento che il bilancio ha una preminente funzione informativa (da cui consegue anche l’esigenza di “chiarezza” prevista dal legislatore), volta a consentire un giudizio di sintesi sulla situazione complessiva della società, le eventuali irregolarità accertate in sede giudiziale devono tradursi in un vizio “rilevante”, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, valutandosi se incida sul grado di comprensibilità della singola informazione e se, complessivamente, sia idoneo a indurre in errore i lettori del documento.

Occorre, peraltro, considerare che:
– a ciascun bilancio di esercizio sociale corrisponde un’unica condotta di falso, che si realizza indipendentemente dal numero di voci di bilancio interessate, rilevando piuttosto l’effetto distorsivo complessivamente considerato;
– condizione necessaria e sufficiente per integrare la fattispecie è l’accertamento della falsità anche di una sola voce del bilancio, purché l’irregolarità sia in concreto “rilevante”;
– è possibile non prendere in considerazione le contestazioni relative a voci che non mostrino uno scostamento superiore a una soglia minima predeterminata (cfr. Cass. SS.UU. n. 22474/2016), al di sotto della quale, quindi, eventuali scostamenti possano presumersi privi di rilevante idoneità ingannatoria e concretamente inoffensivi. Nel caso di specie, in particolare, è stata ritenuta ragionevole la soglia, parametrata al fatturato della società (circa 800 milioni di euro), di un milione di euro per ciascuna voce di bilancio.

Quanto all’elemento soggettivo del reato di false comunicazioni sociali, si evidenzia come esso preveda:
– il dolo generico in ordine alla rappresentazione del falso, che, in ragione della presenza dell’avverbio “consapevolmente”, si atteggia come dolo “diretto”. Dolo che può desumersi dalle modalità della condotta e dal ruolo dell’imputato (ad esempio, perché protagonista della vicenda in tutte le sue fasi, da quelle propedeutiche all’insorgenza del fatto di gestione da annotare in contabilità, fino all’approvazione del progetto di bilancio in ambito consiliare);
– il dolo specifico dell’ingiusto profitto (“per sé o per altri”). Ravvisabile, ad esempio, nel fine (immediato) di raggiungere gli obiettivi di rendimento fissati nell’intento (mediato) di scalare le gerarchie della società.