Prima sentenza di Cassazione del 2023 «rigida» sulla valutazione dei limiti posti dall’art. 172 del TUIR

Di Gianluca ODETTO

La sentenza della Corte di Cassazione n. 1035 depositata ieri, 16 gennaio 2023, afferma che il riporto delle perdite nelle fusioni in assenza delle condizioni di vitalità contenute nell’art. 172 comma 7 del TUIR, legate ai parametri dei ricavi e delle spese per lavoro subordinato, nonché all’entità del patrimonio netto contabile, può essere operato dietro presentazione di interpello.

La sentenza, favorevole al Fisco così come il giudizio di secondo grado, precisa in primo luogo che il parametro delle spese per lavoro subordinato e dei relativi contributi (il cui importo deve essere superiore, nell’esercizio precedente a quello in cui la fusione è deliberata, al 40% della media dell’ultimo biennio) deve essere interpretato in modo letterale. Non è stato, quindi, accolto il motivo di difesa della società, secondo cui il mancato rispetto del limite era dovuto a una scelta gestionale (quella di esternalizzare alcune funzioni), a fronte della quale risultava fisiologico che costi in precedenza allocati tra quelli per lavoro dipendente risultavano sostituiti, nell’immediatezza della fusione, da spese per prestazioni di servizi (le quali non sono prese in considerazione dall’art. 172 del TUIR per presumere la vitalità): ad avviso della Suprema Corte, il richiamo della norma alle voci di Conto economico riferite al lavoro dipendente “non lascia margine alla equiparazione tra i costi per il personale subordinato ed i costi del personale esternalizzato (…)”.

Si viene così a creare una situazione tale per cui, fatto salvo quanto si dirà brevemente con riferimento al diritto di interpello, mentre risulta pacifico, anche nella stessa prassi dell’Agenzia delle Entrate, che se la società è senza dipendenti la vitalità può essere dimostrata in altro modo (si va dal caso “madre” delle società holding, a suo tempo analizzato dalla risoluzione n. 337/2002, alla situazione delle società veicolo delle operazioni di MLBO, analizzata in special modo dalle risposte a interpello nn. 57/202088/2020430/2020 e 465/2020), si va a penalizzare le società per cui il parametro non è soddisfatto per una scelta gestionale (la sostituzione di personale dipendente con service esterni) di per sé non indice di depotenziamento.

Ulteriori elementi di attenzione riguardano il parametro del patrimonio netto. Nel caso specifico, la società aveva depositato il progetto di fusione presso la sede sociale il 30 luglio 2010, con conseguente obbligo di redigere la situazione patrimoniale infrannuale ai sensi dell’art. 2501-quater c.c., sempre nel caso considerato riferita alla data del 30 giugno 2010 (all’epoca non risultava ancora possibile rinunciare alla situazione infrannuale con voto unanime), la quale evidenziava un dato del patrimonio netto inferiore a quello esistente al 31 dicembre 2009.

La società aveva ricevuto versamenti per 10 milioni di euro sino al marzo del 2008, per cui si poneva il problema di come valutare questo dato, posto che l’art. 172 comma 7 del TUIR impone di non tenere conto dei versamenti e dei conferimenti ricevuti negli ultimi 24 mesi. L’ipotesi avanzata dalla società era quella di determinare in via prioritaria il minore tra i patrimoni netti al 31 dicembre 2009 e al 30 giugno 2010, senza considerare i versamenti di data recente, e di ridurre il minore in ragione di tali versamenti (nel caso specifico, ciò portava a non operare alcuna ulteriore riduzione, in quanto l’ultimo versamento sarebbe stato fatto circa 28 mesi prima della data di riferimento della situazione patrimoniale).

Questa impostazione non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione, secondo cui occorre prima decurtare i patrimoni netti risultanti dall’ultimo bilancio e dalla situazione patrimoniale in ragione dei conferimenti degli ultimi 24 mesi (da quanto emerge, tenendo conto per ciascuno di essi del limite dei 24 mesi, per cui solo il patrimonio netto al 31 dicembre 2009 avrebbe dovuto essere ridotto dei conferimenti ricevuti all’inizio del 2008); dopo questa operazione (e solo dopo questa), si dovrebbe fare il confronto tra i due patrimoni netti, e nel caso oggetto della sentenza n. 1035/2023 sarebbe stato il patrimonio netto al 31 dicembre 2009 – il minore tra i due – a rappresentare il limite entro cui le perdite fiscali sono riportabili.

Ad avviso dei giudici di legittimità, una soluzione contraria lascerebbe un maggior margine di discrezionalità alle società, le quali potrebbero allungare i tempi di redazione della situazione patrimoniale, aggirando potenzialmente la norma.
Come riferito, il rigore della sentenza è temperato dalla previsione in base alla quale, se lo schema dell’art. 172 comma 7 del TUIR presenta un certo grado di rigidità, rimane la possibilità di fare valere le proprie ragioni con lo strumento dell’interpello disapplicativo di cui all’art. 11 comma 2 della L. 212/2000.

Resta tuttavia da comprendere come la conclusione della sentenza n. 1035/2023, che ha in sostanza escluso la dimostrazione della natura di società “operativa” della società convenuta, possa conciliarsi con le indicazioni della circolare n. 9/2016 (§ 1.4), nella quale l’Agenzia delle Entrate, dopo avere enunciato la natura obbligatoria dell’interpello ove si vogliano riportare le perdite in assenza delle condizioni di legge, ha affermato che la sua mancata presentazione, pur oggetto di autonoma sanzione, non pregiudica la possibilità di richiedere la disapplicazione della norma (l’art. 172 comma 7 del TUIR in commento) anche nelle successive fasi del contenzioso.