Concorso del socio nella rappresentazione a creditori e organi di controllo di una situazione contabile e finanziaria inveritiera

Di MARIA FRANCESCA ARTUSI

In tema di bancarotta societaria, il dolo presuppone una volontà volta al dissesto. Non si tratta di intenzionalità rispetto all’insolvenza, bensì di una consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico. Tale principio è già stato enunciato più volte dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. nn. 50489/201842257/2014 e 23091/2012). La sentenza della Cassazione n. 36336, depositata ieri, lo applica in un’ipotesi in cui la condotta illecita era stata posta in essere, dall’amministratore di diritto di concerto con il socio e fratello, allo scopo, dapprima, di ottenere l’ammissione a delle licenze televisive, e, conseguentemente, di continuare l’attività, rappresentando a creditori e organi di controllo, una situazione contabile e finanziaria inveritiera.

In particolare, la condotta illecita veniva individuata nella causazione del dissesto, per effetto dell’esposizione nei bilanci e nelle situazioni patrimoniali successive di un capitale sociale di oltre sette milioni di euro in realtà inesistente, con simulazione di uno stato di solidità della società che le aveva consentito di acquisire licenze televisive nazionali (per le quali era necessario esibire un capitale sociale superiore a sei milioni di euro). Complice una politica economica disinvolta, la situazione patrimoniale della società era peggiorata e le licenze ottenute erano state vendute, senza alcun passaggio dalla contabilità ovvero dai conti correnti della società, con evidente depauperamento della stessa.

L’esistenza del nesso causale tra il falso in bilancio e il dissesto della società era stata accertata dalla Corte di appello soprattutto sulla base delle affermazioni contenute nell’esposto del collegio sindacale, in quanto le false appostazioni erano state finalizzate a consentire all’amministratore condotte altrimenti impossibili e a indurre i terzi, caduti in errore, a compiere azioni che altrimenti non avrebbero compiuto o ad omettere iniziative che altrimenti avrebbero intrapreso. Esse avevano, quindi, cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto secondo quanto richiesto dall’art. 223 del RD 267/42.

Interessante è proprio il ruolo svolto dall’organo di controllo nel corso della vicenda, che aveva provveduto a segnalare l’inesistenza del conferimento di sette milioni di euro, dopo aver ricercato per diverso tempo tali titoli senza esito, fino a quando lo stesso imputato ne aveva ammesso la fittizietà, confessando come fosse stata falsificata la perizia di stima da parte di un commercialista coinvolto. Il collegio aveva a un certo punto addirittura incaricato un legale perché effettuasse ricerche in merito al capitale che si diceva essere depositato presso una banca spagnola.
Lo stesso organo di controllo aveva, poi, provveduto a convocare con urgenza un’assemblea dei soci alla quale l’amministratore in questione e il fratello non avevano partecipato.

Da tutti questi elementi viene tratta – correttamente secondo i giudici di legittimità – la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo non solo all’amministratore di diritto, ma anche al socio che lo aveva affiancato in tutte le operazioni rilevatesi fraudolente.
Si noti che la precedente sentenza di condanna nei confronti del soggetto extraneus era stata annullata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 3201/2021. Ciò in quanto non è possibile contestare direttamente, ma solo per concorso ex art. 110 c.p., il reato di bancarotta societaria da dissesto a chi rivesta solo la qualifica di socio. Il citato art. 223 individua, infatti, tassativamente i soggetti attivi del reato – amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori – la cui estensione si rivelerebbe una analogia in malam partem, vietata dall’ordinamento penale.