L’acquisto di bitcoin può concretizzare l’ostacolo all’identificazione della provenienza del denaro funzionale all’integrazione del delitto

Di Maria Francesca ARTUSI

La moneta virtuale non può essere esclusa dall’ambito degli strumenti finanziari e speculativi rilevanti per il reato di autoriciclaggio.
L’art. 648-ter.1 c.p. ritiene, infatti, che integri una condotta illecita l’impiegare, sostituire, trasferire, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto (ovvero da una contravvenzione punita con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi, alla luce della modifica operata dal DLgs. 195/2021), in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza.

La giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che l’acquisto di bitcoin può concretizzare l’ostacolo all’identificazione della provenienza del denaro funzionale all’integrazione del delitto in esame (Cass. n. 2868/2022; sul riciclaggio si veda Cass. n. 26807/2020).

Ribadisce ora tale principio la Cassazione nella sentenza n. 27023 depositata ieri.
Si trattava qui di un trasferimento immediato di somme non appena accreditate – senza mai riscuoterle – attraverso disposizioni on line su un conto estero, per il successivo acquisto di valuta virtuale il cui impiego finale risulta ancora imprecisato; ponendo così in essere un investimento dei profitti illeciti in operazioni di natura finanziaria, idonee a ostacolare la tracciabilità e la ricostruzione dell’origine delittuosa del denaro.

Nelle motivazioni vengono ribaditi i seguenti punti.
L’indicazione normativa dell’art. 648-ter.1 c.p. riguardante le attività (economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative) in cui il denaro, profitto del reato presupposto, può essere impiegato o trasferito, lungi dal rappresentare un elenco formale delle attività suddette, appare piuttosto diretta ad individuare delle macro aree, tutte accomunate dalla caratteristica dell’impiego finalizzato al conseguimento di un utile, con conseguente inquinamento del circuito economico, nel quale, vengono immessi denaro o altre utilità provenienti da delitto e delle quali il reo vuole rendere non più riconoscibile la loro provenienza delittuosa (Cass. n. 13795/2019).

Possono essere ricondotte nell’ambito della dizione di “attività speculative” (della quale il legislatore, non a caso, non offre rigida definizione) molteplici attività e, in particolare, tutte quelle in cui il soggetto ricerca il raggiungimento di un utile, anche assumendosi il rischio di considerevoli perdite.

Le valute virtuali possono essere utilizzate per scopi diversi dal pagamento e comprendere prodotti di riserva di valore a fini di risparmio ed investimento (sul punto, viene richiamata la c.d. V direttiva Antiriciclaggio Ue 2018/843).
Come sottolineato in dottrina, la configurazione del sistema di acquisto di bitcoin si presta ad agevolare condotte illecite, in quanto – con il richiamo alle registrazioni sulla “blockchain” e sul “distribuited ledger” – è possibile garantire un alto grado di anonimato (sistema c.d. permissionless) senza previsione di alcun controllo sull’ingresso e sulla provenienza del denaro convertito. È, infatti, ormai vasto il numero di criptovalute utilizzate nel darkweb, proprio per le loro peculiari caratteristiche, e che alcune di esse, attraverso l’uso di tecniche crittografiche avanzate, garantiscono un elevato livello di privacy sia in relazione alla persona dell’utente sia in relazione all’oggetto delle compravendite.

Indubbiamente – prosegue la Cassazione – con il DLgs. 90/2017 il legislatore italiano ha apportato sostanziali modifiche al DLgs. 231/2007, anticipando le disposizioni della V direttiva Antiriciclaggio in materia di criptovalute, valute virtuali e destinatari degli obblighi di prevenzione, normativa di carattere preventivo che si affianca alla disciplina penalistica di contrasto a riciclaggio e autoriciclaggio.

Un’annotazione interessante riguarda anche la competenza territoriale per il reato di autoriciclaggio. Ciò che rileva è il luogo di impiego del denaro (nel caso di specie, da provento delle truffe a prezzo di acquisto di bitcoin) ossia il conto corrente sul quale le somme sono confluite dalle persone offese, vittime dei raggiri, e destinate al mercato estero, con la conseguenza che, ai fini della competenza per territorio, occorre fare riferimento al Tribunale del luogo in cui si trova l’istituto bancario in cui l’agente ha aperto quel conto corrente ed ha operato da remoto, dando disposizioni per immettere nel circuito finanziario il capitale illegittimamente acquisto.