Per la soglia di punibilità va considerato il risultato economico derivato da ciascuna delle condotte produttive dell’indebita erogazione

Di Maria Francesca ARTUSI

Nella giurisprudenza penale sono emersi diversi orientamenti in merito alla qualificazione giuridica della condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottenga dall’INPS il conguaglio di tali somme con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni.
Tale condotta è stata qualificata talvolta come appropriazione indebita (art. 646 c.p.), talvolta come truffa (art. 640 c.p.), talvolta come indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ai sensi dell’art. 316-ter c.p. (cfr. Cass. nn. 42937/20127963/2020 e 51334/2016).

La sentenza n. 20531 depositata ieri si allinea a quest’ultimo orientamento.
Viene, così, esclusa la ravvisabilità degli elementi costitutivi sia del delitto di truffa che di quello di appropriazione indebita. Da un lato, mancano gli artifici e raggiri e, soprattutto, manca il danno dell’ente cui il lavoratore non potrà richiedere quanto spettantegli, dovendo questo rivolgersi esclusivamente al proprio datore di lavoro. Dall’altro, manca il presupposto del possesso delle somme indebitamente percepite dal datore di lavoro.

Richiamando le Sezioni Unite n. 7537/2011, la pronuncia in esame ricorda che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 316-ter c.p., rileva l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (ovvero l’omissione di informazioni dovute) da cui derivi il conseguimento indebito di erogazioni da parte dello Stato o di altri enti pubblici o delle Comunità europee. Tali erogazioni non devono necessariamente consistere nell’ottenimento di una somma di denaro, ma possono consistere indifferentemente o nell’ottenimento di una somma di danaro oppure nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta.

In definitiva, tale reato ha carattere residuale rispetto alla truffa in quanto punisce condotte caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore. Quest’ultimo, infatti, non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente.

Dopo aver qualificato il fatto come indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, la Cassazione si sofferma sul criterio di computo della soglia di punibilità stabilita dall’art. 316-ter comma 2 c.p., allorché il reo consegua in momenti diversi delle somme o un’esenzione di pagamento: “Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a lire sette milioni settecentoquarantacinquemila si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da dieci a cinquanta milioni di lire. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito”. Per i giudici di legittimità, il superamento di tale soglia integra un elemento costitutivo del reato e non una condizione obiettiva di punibilità; pertanto diventa irrilevante che il beneficiario consegua in momenti diversi contributi che, sommati tra loro, determinerebbero il superamento della soglia, in quanto rileva il solo conseguimento della somma corrispondente a ogni singola condotta percettiva.

Da ciò deriva che, in caso di indebita compensazione con somme non erogate al lavoratore, il datore di lavoro realizza la condotta tipica prevista dall’art. 316-ter c.p. nel momento in cui ottiene l’indebita erogazione da parte dell’ente pubblico, sotto forma di “risparmio di spesa” rispetto a quanto avrebbe invece dovuto versare all’ente previdenziale se non avesse compilato detto flusso in termini non veritieri. Seguendo tale ragionamento, il superamento della soglia di punibilità, espressamente collegata all’entità della “somma indebitamente percepita”, non può che essere calcolato considerando il risultato economico derivato da ciascuna delle condotte produttive dell’indebita erogazione.
Il diverso principio relativo alla rilevanza della somma complessivamente erogata resta invece valido in fattispecie in cui le indebite erogazioni conseguano a una singola e unitaria condotta tipica dalla quale erano derivate delle erogazioni “dilatate” nel tempo (cfr. Cass. n. 11145/2010).

Nel caso qui in esame, tenendo conto delle modalità della condotta del datore di lavoro effettuata sulla base delle comunicazioni mensili all’istituto previdenziale, e dell’ammontare delle somme mensilmente comunicate, deve, dunque, ritenersi che, in relazione alle singole mensilità contributive e al conseguente risparmio di spesa ottenuto, non sia stata superata la soglia di punibilità. Ne consegue che, difettando un elemento costitutivo del reato, tale condotta integra unicamente l’illecito amministrativo previsto dall’art. 316-ter comma 2 c.p.