L’amministratore non è tenuto ad alcun obbligo di «fare»

Di Maurizio MEOLI

Nelle società di persone, una volta approvato il rendiconto che evidenzia l’esistenza di utili, occorre prestare adeguata attenzione all’azione che si intraprende per ottenere il riversamento degli stessi, perché la domanda giudiziale, se non adeguatamente impostata, potrebbe essere rigettata, nonostante la sussistenza del presupposto.

È questo l’insegnamento che si può trarre dalla lettura della sentenza n. 32666 della Cassazione, depositata ieri.
Nel caso di specie, i soci accomandatari di una sas, in seguito all’approvazione di un rendiconto nel quale figuravano utili sociali, agivano in giudizio nei confronti dell’accomandatario per ottenerne la distribuzione sulla base della rispettiva partecipazione. Si evidenziava, infatti, come, nelle società di persone, il diritto del singolo socio a percepire gli utili sia subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., alla mera approvazione del rendiconto (cfr. Cass. nn. 17489/2018 e 28806/2013); ciò diversamente da quanto accade nelle società di capitali, dove, ex art. 2433 c.c., occorre la previa deliberazione assembleare che, preso atto della sussistenza di utili in bilancio, ne autorizzi la distribuzione.

Si chiedeva, in particolare, la condanna del socio accomandatario/amministratore alla esecuzione di un obbligo di “fare” fondato sul rapporto di mandato che lega soci ed amministratore.
La pretesa, già rifiutata in sede di merito, viene rigettata anche dalla Suprema Corte.

Si osserva, innanzitutto, come titolare dell’obbligo di procedere alla distribuzione degli utili sia la società (nella specie, la sas), quale soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine ed alla cui attività è dovuta la produzione di utili. Questi utili fanno parte del patrimonio sociale fino a quando non intervenga la mera approvazione del bilancio (ovvero del rendiconto) che ne determina l’emersione.

Ne deriva che, nella società di persone, l’approvazione del citato documento, dal quale emerga l’esistenza dell’utile, è la sola condizione sufficiente a legittimare ciascun socio a pretendere che la “società” gli distribuisca la quota parte di utile spettante.

Non è ravvisabile, quindi, una legittimazione passiva dell’accomandatario sulla base di una distinta prestazione di “fare” a lui personalmente ascrivibile. Ciò in quanto la prestazione correlata al diritto all’utile non è altro che una prestazione di “dare” integrata dall’obbligo di distribuzione incombente sulla società. Per cui, è sempre e solo la società, e non altri, il soggetto tenuto ad adempiere. Mentre il fatto che l’adempimento presupponga l’agire dell’amministratore non modifica i termini della questione, dal momento che l’amministratore, da questo punto di vista, risulta essere semplicemente l’organo tramite il quale la società opera. Per cui, si delinea un rapporto obbligatorio – da inquadrare, per il suo lato attivo, tra i crediti verso la società di cui all’art. 2304 c.c., e, per il suo lato passivo, tra le obbligazioni sociali di cui all’art. 2291 c.c. – del quale potrebbero rispondere anche i soci accomandatari in via illimitata e solidale con la società (salvo il beneficio di preventiva escussione di questa), con la possibilità per il creditore sociale di agire (ex art. 2304 c.c.) per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio illimitatamente e solidalmente responsabile dell’obbligazione sociale.

Peraltro, si evidenzia al riguardo come, recentemente, la Cassazione, nell’ordinanza n. 11223/2021, abbia stabilito che il socio di una società di persone potrebbe pretendere dagli amministratori gli utili non percepiti e risultanti da un rendiconto approvato attraverso l’azione di cui all’art. 2395 c.c., utilizzabile anche in tale ambito sociale (tale pretesa diverrebbe ingiustificata solo qualora, in sede di approvazione del rendiconto, sia stata condivisa la destinazione degli utili stessi ad incremento del capitale della società).

Ad ogni modo, tornando alla decisione in commento, i giudici di legittimità osservano come la diversa strada intrapresa dagli accomandanti del caso di specie – fondando l’azione giudiziale semplicemente sull’art. 1713 c.c., in tema di rendiconto del mandatario – finisca per spostare l’attenzione su un profilo assolutamente estraneo alla fattispecie societaria, visto che la citata norma collocherebbe l’impegno nel diverso schema del contratto di scambio che lega mandante e mandatario, e che in tal senso obbliga il mandatario semplicemente a rimettere al mandante “tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato”.

Cosa che – prosegue la Cassazione – implica il muoversi in un ambito causale del tutto diverso rispetto a quello della rappresentanza organica della società in rapporto ai terzi, tali essendo i soci una volta maturato il credito verso la società; dal momento che, una volta sorta l’obbligazione di pagamento, l’unico soggetto tenuto ad adempiere risulta essere la società.

Neppure, infine, è possibile prospettare l’emersione di una diversa ragione giuridica in grado di sostenere comunque la richiesta posta alla base del ricorso in Cassazione, perché, per tal via, si finirebbe per realizzare un mutamento della domanda per come definita nella causa petendi prospettata in giudizio.