La Cassazione esamina un caso di contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti
Con la sentenza n. 37597 depositata ieri, la Cassazione ha ribadito alcuni principi di diritto riguardanti i reati di emissione e di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (artt. 2 e 8 del DLgs. 74/2000) a cui, nel caso di specie, era pure conseguita la fraudolenta richiesta all’Amministrazione finanziaria di rimborso dell’inerente IVA, contestata al ricorrente come tentata truffa aggravata (artt. 56, 640 comma 2 n. 1 c.p.).
Proprio riguardo a quest’ultimo reato, con il ricorso si contestava l’effettiva idoneità degli atti compiuti per ottenere il rimborso dell’imposta a trarre in inganno l’Amministrazione finanziaria – e, dunque, a indurla a porre in essere un atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole – in assenza della prestazione della garanzia richiesta dall’art. 38-bis del DPR n. 633/1972.
Sul punto, in via preliminare, la Corte ha ricordato il proprio orientamento riguardo al rapporto di specialità che si pone tra la frode fiscale e la truffa aggravata ai danni dello Stato o di altro ente pubblico, in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale (Cass. n. 36916/2020).
Il delitto di frode fiscale è, infatti, connotato da uno specifico artificio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e da una condotta, a forma vincolata, consistente nell’indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o all’IVA. A nulla rilevando, a tal fine, gli elementi del danno e del profitto, posto che l’art. 1 comma 2 lett. d) del DLgs. n. 74/2000 include nel “fine di evadere le imposte” anche quello di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta; e non rileva il suo conseguimento, scopo della condotta tipica caratterizzante l’elemento intenzionale, connotandosi, la frode fiscale, come reato di pericolo di mera condotta, mediante il quale il legislatore ha inteso rafforzare la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica, come d’altronde confermato dalla misura della sanzione superiore a quella prevista per ii delitto di truffa (Cass. SS.UU. n. 1235/2011).
Nel caso di specie, in cui la condotta di tentata truffa ai danni dell’Agenzia delle Entrate si era realizzata mediante artifizi e raggiri, consistiti nel contabilizzare fatture relative ad operazioni inesistenti e nel rappresentare in tal modo costi fittizi anche in relazione all’IVA, e in cui non erano emersi elementi per ritenere che il ricorrente intendesse ottenere un profitto diverso da quello dell’evasione fiscale, la Corte ha ritenuto il reato di truffa assorbito nella frode fiscale, senza che si dovesse procedere al successivo giudizio sulla idoneità degli atti fraudolenti.
La Corte ha poi ribadito, nel confermare il ruolo gestorio dei ricorrente, che la prova della posizione di amministratore di fatto di una società “schermo” – priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata come “cartiera” in un meccanismo fiscalmente fraudolento volto a evadere il versamento dell’imposta sul valore aggiunto – si traduce in quella del ruolo di ideatore e organizzatore del suddetto sistema fraudolento, atteso che non è ipotizzabile l’accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico all’interno di un ente solo formalmente operante (Cass. n. 31823/2020).
Proprio, il ruolo del ricorrente quale amministratore di fatto, sia della società utilizzatrice delle fatture individuate nell’imputazione, sia di quella emittente le stesse, ha legittimato, ad avviso della Corte, la mancata applicazione, nel caso di specie, dell’art. 9 del DLgs. 74/2000, che, in deroga alla regola generale fissata dall’art. 110 c.p., esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente. La disposizione, infatti, non trova applicazione in relazione alle operazioni “infragruppo”, nei confronti di un soggetto che, come nel caso del ricorrente, può nei fatti condizionare la gestione e le soluzioni contabili sia delle società che emettono le fatture per operazioni inesistenti, sia delle società che procedono alla loro successiva utilizzazione (Cass. n. 36859/2013) ovvero quando il soggetto emittente le fatture per operazioni inesistenti coincida con l’utilizzatore delle stesse (Cass. n. 5434/2017).
Da ultimo, la Corte ha confermato che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione (quando la stessa non sia mai stata posta in essere nella realtà), sia in quella di inesistenza relativa (quando l’operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura), sia, infine, nel caso di sovrafatturazione “qualitativa” (quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti), in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Cass. n. 40110/2015) e non soltanto l’assoluta mancanza dell’operazione fatturata.