Il Tribunale di Bologna si sofferma su rilevanti aspetti della responsabilità concorrente dei sindaci

Di Maurizio MEOLI

Il Tribunale di Bologna, nella sentenza n. 499/2020, ha messo in evidenza importanti profili da considerare quando i sindaci vengono chiamati a rispondere per condotte imputabili agli amministratori (c.d. responsabilità concorrente).
Nel caso di specie, in particolare, il curatore fallimentare di una spa fallita agiva nei confronti degli ex amministratori e sindaci della società per ottenere da essi il risarcimento dei danni derivanti: da una irragionevole cessione di azioni proprie; dal mancato richiamo dei decimi di capitale non versati in esito a un aumento di capitale; dall’acquisto di una partecipazione in altra spa poco prima che questa subisse il totale azzeramento del capitale sociale; da una inveritiera valutazione del magazzino al fine di occultare le perdite che, altrimenti, avrebbero azzerato il capitale sociale.

Quanto alla prima contestazione, avente a oggetto la vendita di azioni proprie effettuata senza alcuna garanzia e senza alcuna verifica della solidità della società compratrice, priva di beni e con capitale sociale ancora non interamente versato, i giudici bolognesi evidenziano come, ex art. 2407 comma 2 c.c., i sindaci siano solidalmente responsabili con gli amministratori per i fatti e le omissioni di questi quando il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica. Di conseguenza, pur ammettendo, nella specie, l’omesso adeguato controllo da parte del collegio sindacale, la responsabilità sarebbe comunque da escludere, risultando acclarata la situazione di insolvenza della società debitrice dell’importo dovuto per la cessione di azioni proprie, che da più esercizi presentava perdite; anche l’eventuale adozione di più fattive ed efficaci iniziative verso l’organo amministrativo, quindi, non avrebbero verosimilmente sortito alcun effetto.

Quanto al mancato versamento dei decimi residui correlati a un aumento di capitale, si osserva come, per quanto tale omissione sia nella specie dovuta al fatto che il richiamo avrebbe necessariamente coinvolto anche gli stessi amministratori (in qualità di soci), della stessa sono responsabili anche i sindaci che, in violazione dei doveri loro ascritti, si siano limitati a formali richiami senza adottare alcuna fattiva iniziativa per indurre gli amministratori, se non a pagare i decimi non versati, ad adottare gli ulteriori rimedi prescritti dall’art. 2344 c.c. (fino alla riduzione del capitale).

I sindaci, ancora, sono responsabili delle operazioni non conservative poste in essere successivamente alla perdita del capitale sociale. In particolare, i sindaci sono da ritenere corresponsabili della mera presa d’atto di una ingiustificabile operazione di acquisto di partecipazioni in una società connotata da una totale negligenza nella valutazione delle sue caratteristiche, alla luce sia dell’imminente azzeramento del capitale sociale, sia delle modalità di reperimento della relativa provvista, mediante accensione di due finanziamenti da parte di istituti di credito ai quali erano concesse in pegno le azioni acquistate. Ciò con ricadute sulla veridicità dei bilanci, in cui venivano appostate voci con importi non veritieri al fine di celare le ulteriori perdite.

A ogni modo, è da considerare che, nel contesto di una illecita prosecuzione dell’attività fondata su una infedele rappresentazione di bilancio (in particolare, della posta relativa al magazzino) al fine di “nascondere” l’azzeramento del capitale sociale, non è possibile considerare di per sé causativa di danno per la società l’illecita rappresentazione in bilancio, rispetto alla quale le rettifiche successivamente operate sono funzionali alla valutazione del danno derivante dalla prosecuzione dell’attività gestoria in presenza di una causa di scioglimento della società.

Sotto quest’ultimo profilo, infatti, si deve tenere conto del fatto che la regola principe in materia richiede comunque che il danno vada determinato in modo rigoroso con riferimento all’effettivo aggravamento del dissesto derivante da singole attività gestorie non conservative (cfr. Cass. n. 9983/2017, secondo la quale il giudice può ricorrere in via equitativa al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento. La condizione è che tale ricorso sia congruente con le circostanze del caso concreto, e che quindi sia stato dall’attore allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta).
Per cui, una volta che siano enucleate le specifiche condotte ascrivibili agli amministratori di attività non conservativa foriera di danno per la società, il fatto della irregolare valutazione delle rimanenze di magazzino, con successiva drastica svalutazione, non è in sé rilevante a fini risarcitori.