La circostanza deve essere presa in considerazione per un’eventuale esclusione del dolo in relazione alla fattispecie di omesso versamento IVA

Di Ciro SANTORIELLO

Sulla possibilità per l’imprenditore di giustificare il mancato versamento degli acconti IVA e delle ritenute d’acconto adducendo l’esistenza di una crisi aziendale, la posizione della giurisprudenza è da sempre assai rigorosa. In particolare, la Cassazione esclude ogni rilevanza alle condizioni economiche in cui versa il contribuente al momento del pagamento delle imposte e ciò in quanto la crisi di liquidità dell’azienda non può toccare il profilo della disponibilità delle somme da versare all’Erario, visto che di tali importi l’azienda deve aver già fatto provvista al momento del pagamento delle retribuzioni (Cass. SS.UU. n. 37424/2013 e Cass. n. 43599/2015).

In alcune decisioni può riscontrarsi una qualche apertura, con alcune decisioni che hanno riconosciuto la possibilità di mandare esente il contribuente che non versava il dovuto, individuando però una serie di condizioni di tale rigore e severità da rendere praticamente non praticabile questa soluzione.
In alcune pronunce, infatti, si sostiene che il contribuente deve dimostrare l’impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, ponendo in essere tutte le possibili azioni – anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (come il ricorso allo sconto bancario delle fatture emesse non saldate) – dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a egli non imputabili (Cass. nn. 2614/2014 e 15176/2014).

È da salutare quindi con particolare attenzione e favore una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. n. 31352 depositata lo scorso 10 agosto), la quale cerca di tratteggiare con maggiore oggettività le condizioni in presenza delle quali può ritenersi giustificato – o comunque non penalmente rilevante – l’inadempimento dell’imprenditore.

In particolare, in tale pronuncia la Cassazione non fa riferimento a un obbligo del giudice di verificare se l’imprenditore avesse o meno fatto tutto quanto nelle sue possibilità per pagare comunque l’Erario (valutazione evidentemente assai discrezionale nella sua portata e che può dar luogo a giudizi diversi), ma evidenzia la possibilità di prendere in considerazione le ragioni della crisi economica dell’impresa, causa del successivo inadempimento erariale.
Secondo il giudice di legittimità, infatti, occorre riconoscere la sostanziale non prevedibilità della crisi aziendale quando l’impresa abbia registrato una percentuale inusuale ed eccessivamente numerosa di insoluti, che la decisione, presumibilmente in via esemplificativa, non avendo voluto indicare una soglia fissa, indica nel 40% del fatturato.

In sostanza, l’imprenditore che non abbia assolto l’onere tributario potrà andare esente da sanzione non solo nelle ipotesi in cui dimostri “che non gli sia stato possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale”, ma anche allorquando attesti che la crisi dell’impresa ha avuto origini o una portata inusuali e non rientranti in quella che la decisione suddetta descrive come “il normale rischio d’impresa in relazione agli insoluti”.