Le modalità giuridiche di stipulazione non sono sufficienti a identificare la donazione indiretta
L’incertezza dei confini in ordine alla qualificazione della vendita simulata che dissimuli una donazione e della vendita mista a donazione si trova al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale.
La differenza fra le due fattispecie sembrerebbe chiara a livello teorico: la simulazione presuppone che le parti non vogliano gli effetti della vendita, mentre nella vendita mista a donazione i contraenti vogliono gli effetti del contratto, allo scopo di realizzare anche una liberalità.
La linea di demarcazione fra le due fattispecie diviene meno netta allorquando ci si trovi a dover applicare tale principio al caso concreto.
Nella sentenza del 29 ottobre 2020, il Tribunale di Milano torna a occuparsi della questione. Coinvolti nella vicenda sono i soci di una società in accomandita a composizione familiare. La nonna, accomandante, riferisce di aver ceduto ai nipoti accomandatari le proprie partecipazioni per un corrispettivo pari al valore nominale (circa lo 0,015% del valore reale) e chiede al Tribunale di accertare che il negozio oneroso dissimulasse, in realtà, una donazione nulla perché stipulata con scrittura privata autenticata e, quindi, in assenza di forma prescritta ad substantiam.
I nipoti si costituiscono rilevando come non vi fosse alcuna controdichiarazione scritta che comprovasse la simulazione ed evidenziando come la previsione del pagamento del prezzo consentisse di interpretare il negozio stipulato alla stregua di un negotium mixtum cum donatione, esente dalla forma solenne di cui all’art. 809 c.c.
Il Tribunale, dimostrando di aderire alla tesi maggioritaria espressa dalla giurisprudenza di legittimità, ritiene necessario, per configurare una donazione indiretta, che sia pattuito un prezzo sì sproporzionato, ma comunque dotato di un minimo corrispettivo.
Sulla scorta di questo principio, la sentenza in commento stabilisce che deve ritenersi nulla per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam l’operazione di cessione di quote di partecipazione di una società in accomandita semplice al valore nominale, allorquando emerga che il valore reale sia tale da rendere il corrispettivo meramente simbolico e sostanzialmente equiparabile al c.d. “prezzo vile”. Tale circostanza, stando alla ricostruzione proposta dal Tribunale, consentirebbe di escludere l’effettiva volontà delle parti di dar vita a una compravendita, in particolare quando (come nel caso di specie) il prezzo sia solo nominato nell’atto e risulti privo di significativa corrispettività.
Nella vendita mista a donazione deve esserci una sproporzione fra le prestazioni (tra il valore del bene e il corrispettivo pattuito).
Il dibattito sorto in seno alla giurisprudenza di legittimità comprova che, pur risultando apparentemente chiara la distinzione dal punto di vista teorico, quando ci si trova a fare i conti con le singole fattispecie, i termini della qualificazione giuridica si complichino notevolmente. La giurisprudenza ha elaborato, nel corso del tempo, criteri utili all’identificazione della donazione indiretta.
Dapprima, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza del 27 luglio 2017 n. 18725, fornendo un rilevante contributo all’individuazione della linea di demarcazione fra i due istituti in esame, ha avuto cura di precisare come il discrimine vada ricercato nelle modalità giuridiche con cui viene realizzata la liberalità.
Nei casi esaminati dalla Supreme Corte (cfr. Cass. nn. 13337/2006 e 23297/2009), la donazione indiretta tramite vendita è ravvisata laddove il corrispettivo della cessione risulti sproporzionato rispetto al valore reale del bene ceduto. Le parti devono aver inteso, nella loro autonomia negoziale, porre in essere una compravendita, sia pure realizzando indirettamente, tramite essa, l’arricchimento di una a opera dell’altra.
Successivamente, i giudici di legittimità (cfr. Cass. n. 16783/2019) compiono un ulteriore passo definitorio, precisando il contenuto di detto sbilanciamento. Dopo aver condotto un’analisi testuale delle disposizioni di legge coinvolte nel dibattito (artt. 782 e 809 c.c.), la citata sentenza evidenzia come nessuna norma stabilisca la misura della sproporzione tra le prestazioni che determina la configurabilità del negotium mixtum cum donatione sicché, oltre alle modalità giuridiche a cui fanno ricorso i contraenti, ai fini della qualificazione del negozio in termini donativi o meno, occorre soffermarsi sulla controprestazione, onde poter affermare che di corrispettivo si possa effettivamente parlare.