Conta il solo fatto che un soggetto abbia impiegato in attività economico-finanziarie beni che derivano da una previa condotta di riciclaggio

Di Maria Francesca ARTUSI

Per la Cassazione è punibile il riutilizzo dei beni che derivano dal riciclaggio a prescindere dalla volontà di ostacolare l’identificazione della provenienza degli stessi.

Nel procedimento esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 24273 depositata ieri, il titolare (“di fatto”) di una scuderia era imputato per il reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita per aver impiegato nell’attività economica tre cavalli da corsa di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.).
Tale norma punisce chi impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, alla condizione che non abbia concorso nel reato da cui tali utilità derivano e che la condotta non possa essere qualificata come ricettazione (art. 648 c.p.) o riciclaggio (art. 648-bis c.p.). Essa, pertanto, ha una funzione residuale e, operando come norma di chiusura, sanziona una condotta in genere successiva e comunque distinta da quelle previste per il riciclaggio.

Proprio sugli elementi costitutivi della fattispecie in questione si concentrano le motivazioni della Cassazione.
Sul punto la giurisprudenza appare divisa. Secondo un primo orientamento, la fattispecie criminosa di reimpiego, come l’analoga ipotesi di riciclaggio, avendo l’obiettivo di ostacolare l’accertamento o l’astratta individuazione dell’origine delittuosa del bene, richiede che la condotta sia caratterizzata da un effetto dissimulatorio e, conseguentemente, che l’elemento psicologico comprenda la finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita. In tale prospettiva, quindi, la peculiarità che distinguerebbe il riciclaggio dal reato di cui all’art. 648-ter c.p. sarebbe costituita esclusivamente dal fatto che nel secondo la citata comune finalità sia perseguita mediante l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie (Cass. n. 33076/2016).

Altra impostazione – a cui si conforma la pronuncia oggi in commento – ritiene diversamente che per la configurabilità del reato in esame non sia necessario che la condotta di reimpiego presenti connotazioni dissimulatorie, volte cioè a ostacolare l’individuazione o l’accertamento della provenienza illecita dei beni (si veda, in particolare, Cass. n. 9026/2014). In tal senso, viene affermato che il dato testuale e considerazioni di ordine sistematico impongono di escludere che la condotta prevista dall’art. 648-ter c.p. debba essere caratterizzata da effetti dissimulatori e che l’elemento soggettivo, oltre alla consapevolezza della provenienza, si estenda alla finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita del bene.

Alla luce di ciò, i giudici di legittimità delineano le diverse fattispecie che costituiscono il sistema di contrasto ai fenomeni di circolazione, accumulo e consolidamento dei profitti illeciti.

Nella ricettazione (art. 648 c.p.) la condotta è costituita dalla “mera” attività di ricezione (acquisto ecc.) del bene di provenienza illecita e ciò che determina il disvalore penale è il dolo specifico, cioè il fine di conseguire un profitto, che si aggiunge e qualifica la consapevolezza della provenienza illecita.

Nel riciclaggio (art. 648-bis c.p.) la condotta, successiva alla “ricezione”, che rimane assorbita, è qualificata dalla tipologia di azioni (“sostituire”, “trasferire”’) cui fa riferimento la norma e, soprattutto, dalla specificazione per la quale le operazioni previste sono quelle poste in essere “in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza illecita”; e l’elemento psicologico è costituito dalla consapevolezza della provenienza del bene e dal dolo generico di porre in essere una o più delle operazioni previste.

Nel reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), coerentemente con quanto previsto dal comma quarto, sono sanzionate le condotte che l’autore del reato presupposto pone in essere al fine di ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza illecita diverse dalla destinazione alla mera utilizzazione o al godimento personale e il dolo è generico, analogo a quello del riciclaggio.

Per quanto, infine, riguarda il c.d. “reimpiego” – oggetto della sentenza in esame – la condotta sanzionata, anche in questo caso successiva alla “ricezione” che rimane assorbita, è quella di impiegare i beni di provenienza illecita in attività economiche e finanziarie e, conseguentemente, il dolo è generico ed è costituito, oltre che dalla necessaria consapevolezza della provenienza del bene, dalla volontà di impiegare lo stesso nelle attività indicate (Cass. n. 43387/2019).
Per la Cassazione, quindi, la necessità che la condotta incriminata ostacoli l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro – che questa cioè abbia un effetto dissimulatorio – è testualmente richiesta soltanto ai fini della configurabilità dei delitti di riciclaggio e autoriciclaggio.